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martedì 14 gennaio 2014

Chiarimento al post sui "classici"

Siccome il mio ultimo post ha suscitato, su una pagina Facebook, un dibattito abbastanza acceso, e sono stata accusata di aver generalizzato, non nelle intenzioni ma nella forma, vorrei chiarire.

Questo blog è dedicato a un argomento "serio": i libri, e la cultura. Ma esaminati attraverso una lente particolare: la MIA personale lente e, di conseguenza, le mie opinioni e il mio pensiero.

Credo che mi segue da tanto non abbia avuto difficoltà a cogliere e condividere, o non condividere, quanto ho scritto, soprattutto perché conosce il mio modo di esprimermi. 
Io non ho mai inteso generalizzare e affermare che tutte le persone che hanno alle spalle, o portano avanti, studi classici, siano incapaci di esprimere un giudizio autonomo su un "mostro sacro" della letteratura. 
In particolare, il "periodo incriminato", accusato di essere generalizzante, è quello in cui scrivo che "in noi che abbiamo fatto studi classici (...) è invece vivo una sorta di timore..": in questa frase ho, effettivamente, omesso qualsiasi aggettivo o avverbio che potesse ricordare al lettore che si trattava di una mia opinione, e che soprattutto non mi stavo riferendo a tutti coloro i quali hanno compiuto un particolare - e meraviglioso - percorso di studi.  Non li ritenevo necessari, in quanto quel periodo si andava a incastonare in mezzo ad altri che dichiaravano palesemente la mia volontà a non generalizzare. 
Ad ogni modo, mi scuso con chi non ha colto il messaggio: mi spiace di essere stata poco precisa, demandando al lettore il compito di cogliere il "succo" del mio messaggio. Messaggio che ho voluto esprimere secondo il mio stile personale, serio ma non troppo, allegro e autoironico. Stile al quale non voglio rinunciare, perché è vero che questo blog raggiunge parecchie persone, ma è anche vero che rimane "mio".

Detto questo, a chi è approdato ieri, o oggi, su questo blog, va il mio più caloroso benvenuto. Sentitevi liberi di commentare, dibattere, litigare e polemizzare (non troppo!) sia nei commenti sia sulla pagina Facebook del blog. Unica regola: la buona educazione e il rispetto reciproco. 

lunedì 13 gennaio 2014

Timor di classico: il (non) coraggio di dire "non mi piace"

E' parecchio diffusa, tra le persone di una certa cultura - cioè che hanno compiuto studi letterari, e hanno letto molto, sia per dovere sia per piacere - la paura di esprimere un parere soggettivo su un grande classico della letteratura.
Spesso, si tende a trincerarsi vero frasi come "non riesco ad apprezzarlo perché non ne so abbastanza, non ho abbastanza conoscenze per capire il contesto culturale di riferimento", pur di non dire "no, non mi è piaciuto". Invece, chi non ha compiuto studi letterari, e si avvicina a questo tipo di letture, ha meno problemi, solitamente, a diree a spiegare, perché non ha apprezzato l'opera in questione.
In "noi" che abbiamo fatto studi classici (mi riferisco a chi ha SCELTO questo tipo di percorso, e l'ha amato), o che abbiamo conseguito una laurea in lettere & affini, è invece vivo una sorta di "timore reverenziale" nei confronti dei classici: la letteratura ci è stata posta su un piedistallo, è un qualcosa da amare e difendere a spada tratta, non possiamo dire che non ci piace, dobbiamo giustificarci.

Non sono d'accordo, mi dispiace. Credo che l'amore per la cultura e la letteratura non debba privarci della nostra autonomia di giudizio (critico): dobbiamo anzi cercare di capire perché non ci piace, perché non è nelle nostre corde. Infatti, al di là delle conoscenze che si possono avere in merito all'argomento trattato, non è detto che tutte le storie - o tutti i modi di raccontarle - siano affini al nostro sentire.
Di Dostoevskij, ad esempio, ho adorato tutti i grandi romanzi, meno uno: I Demoni. Proprio non mi vanno giù. Sicuramente vi è qualche lacuna, non ho le conoscenze necessarie in materia di cultura russa, ma sono l'andamento del racconto, la prosa, a non risvegliarmi nessuna emozione e, di conseguenza, nessun interesse.
Allo stesso modo, ho pianto come un maiale sgozzato (immagine poetica, eh?) leggendo Storia di una capinera, mentre ho detestato I Malavoglia dalla prima pagina all'ultima: il Verismo di Verga non fa per me, quella prosa difficile e involuta non mi cattura, per nulla.  Anche D'Annunzio: Il piacere e L'Innocente (terribile!) sono nell'Olimpo dei miei libri preferiti, mentre La figlia di Jorio...proprio no.
Grande scoperta dell'ultimo anno è stato Sei personaggi in cerca d'autore: letto attentamente, mi ha affascinato. Me lo sono fatto spiegare, subissando il docente di teatro di domande (poverino...), e sono riuscita ad apprezzarlo ancora di più. Mentre, invece, niente da fare per Uno, nessuno e centomila e Il fu Mattia Pascal.

Il prossimo classico in lista è Padri e figli di Turgenev. Mi piacerà?

sabato 11 gennaio 2014

Recensione: Il vero volto - Lanfranco Pesci

Sinossi (fornitami dall'autore): Durante una tranquilla notte, i teli che hanno fatto parte del corredo sepolcrale di Cristo vengono trafugati dalle cattedrali in cui sono custoditi da secoli. Dietro i furti, lo zampino di una misteriosa setta che decide di farli analizzare in gran segreto per svelare il mistero che avvolge la Sacra Sindone. Il Gran Maestro dell’Ordine dei Templari richiama al castello i suoi uomini migliori per mettersi sulle tracce dei teli scomparsi. Tutti iniziati all’arte degli assassini, addestrati alle pratiche dello spionaggio e del sapere esoterico. Aiutati da Lamech, ex mercenario convertitosi a spia papale e ostacolati da Sigmund, un enigmatico negromante straordinariamente affascinato dai reperti di Girolamo Segato, i protagonisti raggiungono il luogo in cui sta per consumarsi un incredibile e macabro sacrificio. La profezia di Nostradamus sta per avverarsi. Alcuni medici e studiosi vengono rapiti e chiamati a comporre un team ad hoc con il solo obiettivo di scoprire la verità sui Sacri Teli. Le ricerche portano ad una conclusione del tutto inaspettata: la Sacra Sindone è autentica, ma con essa, anche tutti gli altri teli. Inganni, tradimenti e colpi di scena si susseguono in un romanzo che vede come teatri degli scontri alcuni tra i più suggestivi luoghi d'Europa. Riusciranno mai, i protagonisti, a riconsegnare le Sacre Reliquie ai legittimi proprietari? Sarà pronta l’umanità a scoprire attraverso quale processo si è formata l’immagine impressa sul più venerato e osannato telo sepolcrale di Cristo? Ma ancora di più, sarà pronta l’umanità a scoprire qual è il nesso tra la Sacra Sindone e il famigerato Santo Graal? Solo la soluzione dell’enigma potrà dare una risposta, e questo dipende da te. 



Si tratta di un romanzo lungo, che esige una lettura attenta e concentrata, per non perdere nessun passaggio dell'enigma orchestrato.
La storia narrata muove da un eccellente punto di partenza, che incuriosisce subito il lettore: il romanzo, infatti, si focalizza su uno dei più grandi misteri di tutti i tempi, al quale l'autore arriva a proporre una soluzione; si tratta di un'ipotesi affascinante ma, non avendo le conoscenze adeguate, non entro nel merito della sua legittimità. 
Nell'intreccio, però, l'autore fa rientrare parecchi - forse troppi - elementi della nostra tradizione, rendendolo inevitabilmente un po' pesante e, a parer mio, troppo lungo: rimane ammirevole, tuttavia, la coerenza mediante la quale tutti questi elementi vengono collegati, segno di una grande conoscenza della storia e della cultura italiane e non solo. L'autore infatti non perde mai il filo del racconto, e nel finale ogni tassello trova il suo posto, anche se qualche coincidenza risulta, inevitabilmente, un po' forzata. 
Peccato, purtroppo, per lo stile: la narrazione è piatta e a tratti pesante, 
anche a causa delle continue chiarificazioni che l'autore si sente in dovere di fornire a chi legge, soprattutto al termine delle battute dei personaggi. Altra nota dolente è la punteggiatura: ci sono troppe virgole, e manca qualsiasi altra forma di correlazione / opposizione. 
A fare le spese di questo stile piatto, mediante il quale l'autore "spiega" e "racconta", ma non "mostra", sono i personaggi, che risultano privi di caratterizzazione e di approfondimento psicologico. Anche la storia, per quanto ben costruita, non risulta coinvolgente come meriterebbe.

In conclusione...lo consiglio agli appassionati di reliquie e di esoterismo, perché il testo è davvero interessante, ma non a chi si aspetta un thriller che tiene il lettore incollato alla pagina. 

mercoledì 8 gennaio 2014

Sulle Sfumature.

Pubblicamente, delle 50 sfumature ho parlato solo una volta. In parte, perché volevo evitare di unirmi anch'io al coro di chi le screditava, perché so che è vero quello che diceva Oscar Wilde, ossia "bene o male, l'importante è che se parli". Insomma, non potendone parlare bene, avevo pubblicato un piccolissimo post per poi chiudermi nel mio silenzio, cosciente che una critica articolata in più rischiava di diventare una pubblicità in più a un fenomeno di per sé deprecabile.

Purtroppo, è passato più di un anno da quando ho ultimato, sulla spiaggia di Finale, la lettura delle Cinquanta sfumature di rosso, ultimo capitolo della trilogia: la buona notizia è che non ne ho risentito particolarmente; la cattiva è che il primo volume è tra i dieci libri più venduti del 2013 (non scherzo, potete controllare qui). E a questo punto, il mio post non può fare tanto male, e allora scrivo. 

Che quei romanzi abbiano venduto tanto, non stupisce e non deve stupire: il sesso attira, da sempre. Sono stati accompagnati da eccellenti campagne pubblicitarie, e la valanga di stroncatore che si sono riversate in rete non hanno fatto altro che alimentare il fenomeno: magari non tutte l'abbiamo comprato, anche perché i libri - purtroppo - costano, ma (quasi) tutte l'abbiamo letto, per i motivi più svariati. Per curiosità, sicuramente. Per potersi fare un'opinione propria, per poterne parlare. Per essere sicure che facesse proprio così schifo come dicevano tutti. Le più sfortunate, l'hanno letto perché un'amica lo magnificava. 
Personalmente, ho orecchiato pochi consensi, qua e là. Non me ne vogliano le estimatrici delle Sfumature, ma sinceramente credo che... l'apprezzamento attribuito a un romanzo del genere sia spia di una scarsa educazione alla lettura, ingrediente fondamentale per la formazione di uno spirito critico vero e pungente.

Non è piaciuto, quindi, ma ha venduto. Con esiti abbastanza disastrosi, perché decine di donne si sono lanciate a proporre la loro trilogia, col risultato che le libreria sono state invase da gente legata e sculacciata per mesi. Mere operazioni commerciali, niente di più. Fermo restando che la parola "commerciale" non ha, necessariamente, una valenza negativa: una delle più grandi operazioni commerciali dei nostri tempi è sicuramente la saga di Harry Potter che, ben scritto - lo stile e la trama si evolvono nell'arco dei sette volumi, seguendo l'età dei protagonisti e dei lettori - e ben costruito, ha avvicinato alla lettura migliaia di bambini. E si sa, una volta che ti sei avvicinato con successo alla lettura, non te ne allontani più.

Ma all'interno delle Cinquanta sfumature non c'è NIENTE di buono. Ed è per quello che non riusciamo - noi, lettori di lungo corso innamorati dei libri - a perdonare nessuno, né l'autrice né gli editori per avercelo riversato addosso. Una scrittura piatta, banale, sempre sull'orlo dell'errore sintattico. Scene di sesso descritte fino al particolare più minuto, espediente che invece di eccitare annoia, personaggi stereotipati e antipatici.  E soprattutto, diseducativi. Per quanto riguarda lui... pazienza. Si poteva fare molto di più, date le premesse, per renderlo complesso, e ricco di quei chiaroscuri che il titolo vanta ma non si trovano da nessuna parte. Ma lei... lei no, non posso accettarla. è uno stereotipo vivente, ma di quelli brutti, pericolosi. Pericolosi perché non è ancora stato detto abbastanza forte, purtroppo, che una donna deve essere forte, autonoma, dotata di libertà di pensiero. Ana (ma poi...era necessario chiamarla così? come Anoressia?) si fa travolgere dallo spirito della crocerossina quando intuisce il tristissimo passato di lui, si piega a pratiche sessuali che inizialmente non desidera per accontentarlo. E se lui passa il segno, scappa. Ma scappa per vederlo tornare, non per salvarsi, e per rialzarsi. Si fa organizzare la vita, accetta tutte le scelte che lui le impone, comprese quelle più intime, in materia di igiene e di contraccezione (bello questo messaggio, complimenti), non tiene nulla per sé, niente. Si lascia manipolare, convincendosi che lui ha bisogno di lei. Peccato che, in un rapporto vero, sano, due persone non abbiamo bisogno di aggrapparsi l'una all'altra per stare in piedi.

Ecco, ho sintetizzato al massimo, perché avrei potuto scrivere per ore. è vero che avrei potuto non leggerle, che nessuno mi obbliga a parlarne, che non devo rileggerle (ci mancherebbe!). Ma purtroppo, è un fenomeno che mi fa paura. Perché un fenomeno del genere ha attecchito, e non solo per pochi mesi, a quanto dicono le statistiche. Continua a vendere, a suscitare curiosità. E chi c'è dall'altra parte non può che approfittarne, e cominciare a rincorrere la prossima autrice di qualche romanzo - spazzatura costruito ad hoc. Cioè non per educarci, ma per abbruttirci. 

martedì 31 dicembre 2013

La luce alla finestra–Lucinda Riley

TRAMA (da qlibri): Émilie de la Martinières ha sempre subito il giudizio di sua madre, regina indiscussa della scena mondana parigina. Ora ha trent'anni, ma la freddezza mascherata dal lusso e dagli agi con cui quella donna superficiale e distante l'ha cresciuta è un fardello ancora pesante da portare. L'improvvisa notizia della sua morte, tuttavia, risveglia in Emilie un groviglio di sentimenti contrastanti e dolorosi, soprattutto quando apprende di essere l'unica erede di un sontuoso castello nel Sud della Francia, un castello che nasconde le risposte a molti degli interrogativi che pendono sul suo passato: sarà un vecchio taccuino ritrovato tra quelle mura a metterla sulle tracce della misteriosa e bellissima zia Sophia, la cui tragica storia d’amore ai tempi della guerra ha segnato irrimediabilmente la sua famiglia. E perché all'improvviso continua a pensare a un uomo che ha appena conosciuto, proprio lei che si è sempre tenuta lontana dall'amore
Per il ciclo “non-toglietemi-il-mio-Kindle-e-il-mio-romanzetto-puccioso”, ecco l’ultima recensione del 2013: La luce alla finestra.
Per quanto riguarda i romanzi “leggeri” e di evasione, a tema amoroso ma non solo, Lucinda Riley è in assoluto la mia autrice contemporanea preferita. Non sbaglia un colpo. La struttura narrativa da lei delineata, con l’alternarsi tra passato e presente, coinvolge e cattura. Si fatica a staccarsi da ciascuno dei due piani temporali: arrivati al punto cruciale del presente, ricomincia a parlarti del passato, e viceversa, così che l’unica soluzione è leggere, leggere, leggere.
La vicenda del passato è ambientata negli anni della guerra, in quel sottobosco fatto di spie e di partigiani di cui abbiamo sempre l’impressione di sapere poco, e si muove tra Parigi e la campagna provenzale, dove finalmente la protagonista troverà la serenità che i suoi genitori non hanno potuto conoscere.
Lieto fine, quindi, come sempre in questi romanzi: ma non mancano le difficoltà, le battaglie, le perdite.
Il mio 2013 da lettrice si chiude così, alla fine di questo romanzo e a metà di La casa della gioia di Edith Wharton: proposito per l’anno nuovo è approfondire la figura di quest’autrice americana, e dedicarsi a qualche classico mai letto. Victor Hugo, e Proust.

(Post pubblicato, in origine, qui)

venerdì 13 dicembre 2013

Riscoprire le Piccole Donne

Complice un filmetto, trovato per caso su Sky e guardato da metà in poi, ho deciso, tra metà novembre e i primi di dicembre, di dedicarmi alla rilettura delle Piccole Donne, intendendo tutto il ciclo, comprensivo di Piccole donne, Piccole donne crescono, Piccoli Uomini, I ragazzi di Jo.
Ho cominciato così, un pomeriggio, per gioco. Leggendo Piccole donne sulla storica versione di mia mamma, e gli altri su Kindle, siccome ho scoperto, con orrore, che i miei occhi sopportano a fatica la visione dei piccoli caratteri delle mie meravigliose edizioni Giunti, in cui possiedo Piccole donne crescono e Piccoli uomini. Quanto a I ragazzi di Jo, non ne ho una versione in casa. Da bambina, probabilmente, avevo letto solo dei piccoli passaggi.

Ho ricominciato, casualmente, proprio nei giorni successivi allo scoppio dello scandalo riguardante le ragazzine dei licei romani che si prostituivano. Scherzando, ma non troppo, devo aver detto che ritenevo - parzialmente, s'intende - la scomparsa dell'usanza di leggere Piccole donne la causa della degenerazione dei costumi.
Ho quindi postato su Facebook, in un gruppo dedicato ai libri, la fatidica domanda: "Si usa ancora far leggere il ciclo delle Piccole donne?" e, con mia grande stupore, ho ottenuto parecchie risposte affermative e una sola nettamente negativa, di una persona che dichiarava che nei romanzi della Alcott le fanciulle vengono educate al solo scopo di accalappiare un uomo, e che quindi non li avrebbe mai proposti alle sue figlie. Questa signora, che non conosco, ha probabilmente letto con scarsa attenzione, e non volentieri, i romanzi; tuttavia è stata forse questa stessa obiezione a far sì che mi dedicassi alla lettura con più impegno e più attenzione rivolta verso i messaggi educativi e morali che i romanzi trasmettono.
La mia conclusione è che, sia Piccole donne sia Piccole donne crescono, sono romanzi modernissimi, capaci di regalarci insegnamenti sull'importanza di coltivare il senso del dovere, di combattere i propri difetti, l'impulsività e, soprattutto, di innamorarsi con sincerità e di essere in grado di dividere, col proprio compagno, gioie e dolori della vita matrimoniale. Anche su quest'ultimo punto, la Alcott è modernissima: Meg e John si dividono i compiti, litigano, e riescono a ritrovarsi: nessuna delle tre è educata per "accalappiare" e compiacere il proprio uomo, anzi. Tutte sono esortate a coltivare la propria personalità e i propri interessi, e finiscono per avvicinarsi a uomini di classi sociali diverse, con i quali condividono un progetto importante.
Secondo me, è proprio perché per la Alcott è tanto importante lo sviluppo della personalità, il sapersi, nel caso, ribellare alle convenienze sociali e il saper vivere fuori dalla famiglia pur senza perdere i contatti con essa, che l'unica che finisce per soccombere, nella battaglia per l'autoaffermazione, è Beth, che - per quanto questo possa causarci tante lacrime - non può che morire.

Per quanto riguarda Piccoli uomini - che da bambina avevo amato moltissimo - e I ragazzi di Jo, sono rimasta parzialmente delusa.
Nel primo ritroviamo, sicuramente, una memoria di giochi infantili che si è persa per sempre, giochi che sarebbe meraviglioso poter recuperare, perché stimolavano la fantasia e l'autonomia, caratteristiche che ritroviamo difficilmente nei bambini di oggi. Manca però una trama, assente anche in I ragazzi di Jo: si susseguono tutta una serie di episodi, e il personaggio principale è sicuramente Dan che a differenza di Beth - che non si lascia andare all'azione - non riesce a trovare pace in nessuna attività, e finisce per trovarla anche lui, precocemente, nel sonno eterno.
Ma quello che manca, in questi ultimi romanzi, sono le tre sorelle che, da adulte, pur essendo rimaste straordinariamente "loro", non risvegliano lo stesso affetto incondizionato. 

In conclusione, voglio sottolineare come sia importante non solo far leggere, almeno i primi due romanzi, ma soprattutto spiegarli: insegnare alle bambine a non saltare i passaggi moraleggianti, e a spiegare come anche i continui riferimenti alla Provvidenza (tipici della cultura americana dell'epoca) siano riconducibili all'interno di un sistema di valori che non moriranno devono morire mai.


mercoledì 13 novembre 2013

Il bordo vertiginoso delle cose

TRAMA (da qlibri): Mentre sorseggia il cappuccino come ogni mattina, seduto in un bar nel centro di Firenze, Enrico Vallesi legge una notizia sul giornale: in un conflitto a fuoco con i carabinieri, è rimasto ucciso un rapinatore, da poco uscito di galera. Il nome della vittima riporta Enrico alla fine degli anni Settanta, al primo giorno di liceo, quando in una classe di quindicenni aveva fatto la sua comparsa Salvatore. più volte bocciato, turbolento, il compagno che gli aveva insegnato come difendersi dalla violenza della strada e superare a testa alta quel territorio straniero che è l'adolescenza. Ai ricordi di Enrico si alterna il racconto del suo ritorno nella città dalla quale era partito, quando non aveva ancora conosciuto gioie e delusioni del matrimonio e del suo mestiere di scrittore. Un ritorno a casa in cerca di risposte ai propri tormenti, per scoprire quello che tanti anni prima si era lasciato alle spalle, ma anche per capire cosa è diventata nel frattempo la sua vita.
Tutti presi a parlare di chi c’è in testa alla classifica dei libri più venduti – io per ora sull’argomento taccio, ma sono quasi tentata di leggerlo, il primo in classifica, perché ho la poco diffusa abitudine di voler conoscere prima di (s)parlare – non ci siamo quasi accorti di chi c’è subito dietro, in seconda posizione. Esatto, proprio lui, Carofiglio. Il fatto che sia in seconda posizione, e non in centesima, rende, secondo me, il panorama della letteratura italiana un po’ meno triste.
L’Enrico de Il borgo vertiginoso ha qualcosa in comune con Giorgio de Il passato è una terra straniera, e se vogliamo anche con il primo Guerrieri. Insomma, la trama di questo Carofiglio è un po’ meno “nuova” ed è, come per tutti i romanzi in cui non è protagonista Guerrieri, abbastanza esile. C’è lui, che non è né carne né pesce, e poi c’è quello che lo tira dalla sua parte, mentre lui nemmeno capisce bene cosa ci sia, da quella parte. Anzi, quando comincia a capirlo non gli piace, ma sta lì. E si ribella solo quando viene toccato nel suo intimo, altrimenti, probabilmente, andrebbe avanti così. Una storia di media vigliaccheria, o di ordinario egoismo. Di cui tutti, prima o poi, ci siamo macchiati.   Sì, perché Carofiglio è Autore nel senso pieno del termine, cioè “colui che accresce”. E cosa, accresce? Accresce la vita. La nostra, di noi che leggiamo i suoi libri. Perché il suo modo inimitabile di scendere nei particolari, nel descrivere le sensazioni, con quella ironia inconfondibile, sua, ci fa aprire gli occhi su cose che sapevamo, ma non volevamo dirci.
Un suo romanzo lo si riconosce dalle prime righe perché non solo scrive (molto) bene, ma ha stile, una cosa abbastanza rara nel panorama della letteratura italiana contemporanea. Con il suo stile, con le sue parole, Carofiglio ci prende e ci caccia a forza dentro la nostra vita attraverso quella dei suoi personaggi.
E allora si che “dopo l’ultima pagina il romanzo finisce”, e noi auguriamo tutto il meglio a Enrico, a Giorgio, e a Guido. Quello che sogniamo per noi.

(Post pubblicato, in origine, qui)