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sabato 27 ottobre 2012

La ragazza con l'orecchino di perla

Se vi piace quest'immagine, date un'occhiata qui. L'artista si fa chiamare Limpfish.

Ho letto La ragazza con l'orecchino di perla di Tracy Chevalier un po' in ritardo: il romanzo è uscito infatti nel 1999.

L'ho letto anche un po' per caso: sono rimasta senza Kindle per qualche giorno, e un'amica me l'ha prestato, per placare l'angoscia che mi attanaglia quando rimango senza un libro fra le mani. L'ho letto in tempi brevissimi, un viaggio in treno e una serata a casa. Annoiata all'inizio, coinvolta a metà, annoiata per poi tornare perplessa.

Non si può dire che mi sia piaciuto, ma nemmeno il contrario. Uno di quei romanzi che non capisci se stai apprezzando o no. Un libro che si lascia leggere, che insegna qualcosa a chi di arte non ne sa e stupisce chi la conosce; ma che dal punto di vista emotivo lascia davvero molto poco, a parer mio.

L'autrice è abilissima nelle descrizioni: tratteggia la cittadina di Delft con grande precisione e altrettanta vivacità, dipinge - è proprio il caso di dirlo - la vita di Griet e degli altri membri della famiglia di Vermeer con impietosa e allo stesso tempo delicata accuratezza.
Non mi sembra scorretto definire ekphrasis le descrizioni delle opere del grande pittore: La lattaia, il concerto interrotto, Donna con brocca d'acqua, Donna che legge una lettera, Concerto a tre... L'autrice non specifica mai il titolo dei dipinti che va descrivendo: se non li conoscete, tenete accanto al libro sul comodino una piccola monografia di Vermeer. Vi aiuterà ulteriormente a entrare nel mondo disegnato dalla Chevalier, e vi stupirete della facilità con cui riconoscete i quadri.
Proprio per questa sua abilità nel tratteggiare il mondo di un artista, le tecniche di lavorazione dei colori, l'atelier, mi ha un po' deluso il modo sbrigativo in cui l'autrice tratta il problema della camera oscura, uno dei più grandi misteri della pittura di Vermeer.

Ma.. la storia? La storia c'è, ma è sullo sfondo. é un quadro ribaltato, questo. Un quadro in cui i personaggi agiscono in ultimo piano. Colpisce la figura di Griet, la sua forza e la sua determinazione, la sua ammirazione - attrazione per il padrone, che però non scalfisce mai il suo desiderio di non tradire se stessa e i suoi ideali. Una sensualità sottile e repressa, e per questo forte e dirompente. Però mi sembra che quello di Griet sia l'unico personaggio degno di esser definito tale: gli altri sono appena tratteggiati, abbozzati, non finiti, non perfetti. Manca loro... l'orecchino di perla.

vi lascio il trailer del film: conto di vederlo a breve.

(post pubblicato, in origine, qui)

venerdì 5 ottobre 2012

L'armadio dei vestiti dimenticati

Anche L'armadio dei vestiti dimenticati è una storia di donne, come Finché le stelle saranno in cielo, ma a differenza di quest'ultimo è tutto fuorchè un libro semplice. La prosa di Riikka Pulkkinen è tipicamente nordica, non saprei descriverla diversamente: ha un ritmo tutto particolare e riconoscibilissimo per chi ha già letto qualcosa di scrittori scandinavi: a me al momento viene in mente solo Le figlie di Hanna, di Marianne Fredriksson. Le vicende che si intrecciano in questa storia sono almento tre: il presente è occupato dalla storia di Elsa, psicologa di successo gravemente malata che affronta, assistita dalla figlia, le nipoti e il marito, le ultime settimane della sua vita; ed è proprio l'incombere della morte a riportare a galla il ricordo della relazione del marito Martti con la baby sitter della figlia Ella, Eeva. Un ruolo centrale è occupato dalla figura della giovane nipote Anna, che ha un rapporto speciale con il nonno - pittore e intellettuale - e pare ossessionata dalla storia di Eeva, con la quale ha qualcosa in comune, ma non capiamo mai quanto e fino a che punto.

I capitoli raccontano, con ritmi alternati irregolari, la storia presente di Martti, Elsa, Anna e Ella e quella passata di Eeva, narrata in prima persona da Eeva stessa. Si crea quindi una sorta di gioco di specchi e la vicenda di Eeva, che vive gli anni centrali della sua giovinezza intorno al 1968, sembra confondersi con quella di Anna, che lavora a una tesi sul femminismo e ha sofferto di depressione a seguito di una relazione finita male.

é un libro che lascia attoniti, pieni di domande. Un libro in cui è facile trovare qualcosa di sè, un qualcosa di già vissuto, una sensazione di dejà vu: leggendolo ci si sente immersi in un turbinio di sensazioni e emozioni che portano a identificarsi ora con Eeva ora con Anna, più raramente con Elsa e Ella: il tutto avviene spontaneamente, attraverso i dialoghi e le descrizioni che non sono mai noiose o eccessivamente introspettive.

Ci si ritrova trasportati in questo dramma familiare che non ha niente di straordinario, anzi: è un dramma talmente normale che avvertiamo sotto la pelle le difficoltà a comunicare, il dolore, la malinconia di ciascuno dei personaggi.  Verso la fine, abbiamo una grande simpatia per Eeva e Anna, e un po' meno per Elsa; riesce difficile anche provare compassione per lei: seppur malata, ha tenuto per tutta la vita accanto a sè marito e figlia, senza esser loro vicino fisicamente, e anche alla fine li avrà tutti per sè, lasciando al "dopo" il compito di guarire le ferite incurabili.

(Post pubblicato, in origine, qui)

mercoledì 3 ottobre 2012

Finché le stelle saranno in cielo

Finché le stelle saranno in cielo è un libro semplice da leggere, anzi da divorare: la prosa di Kristin Harmel è molto scorrevole, anche se particolare: quando è la protagonista, Hope, a vivere gli avvenimenti, l'autrice usa il presente storico alla prima persona; mentre quando è la nonna Rose, detta Mamie per le origini francesi, a rivivere i suoi ricordi abbiamo un passato remoto alla terza persona. Insolito, ma funziona!

La storia è complessa, la trama è ben congegnata e mai scontata, i temi sono davvero molteplici: Hope è una giovane divorziata che gestisce, con la figlia dodicenne, la pasticceria che era stata della madre e della nonna e si ritrova a dover ripercorrere il passato della nonna che, malata di Alzheimer, rivela di essere ebrea, e di esser fuggita da Parigi giovanissima abbandonando la famiglia. Ad aiutare Hope nella ricerca interviene il giovane Gavin, tuttofare che si appassiona a lei, alla sua storia e alla bambina. Il viaggio di Hope si svolge da Cape Cod a una Parigi insolitamente ben descritta - sembra davvero di passeggiare per le vie del Marais e di attraversare Place des Vosges! - per concludersi a New York, all'ombra della Statua della Libertà. Un viaggio alla scoperta delle origini di Mamie, che assumeranno anche per Hope un significato particolare, e finiranno per rafforzare la sua decisione di salvare la pasticceria della sua famiglia, aiutandola a comprendere quanto abbiano significato i dolci nella storia della sua Mamie.

I temi quindi sono tanti: il principale forse è l'Olocausto, trattato con toni tenui ma non per questo meno drammatici; poi importantissimo il ruolo dei dolci, e qui forse la Harmel strizza un po' l'occhio - senza eguagliarlo - a Chocolat della Harris; un ruolo primario è rivestito dalla complessità dei rapporti tra donne all'interno di una stessa famiglia: le difficoltà di Hope con la figlia sono il riflesso di quelle che ha avuto lei con la madre. Poi c'è, ovviamente, l'amore: attraverso la storia della giovane Mamie e del suo (perduto ?) Jacob, Hope riprende fiducia in stessa, e ricomincia a credere nell'amore.

Il personaggio di Hope è forse la cosa meglio riuscita di tutto il libro: all'inizio lei ci appare come una donna frustrata, depressa a causa del divorzio, incapace di rapportarsi con la figlia adolescente e incline a considerarsi una fallita: spontaneo detestarla, e ancora più spontaneo chiedersi perché la Harmel abbia scelto di chiamarla Hope! Si tratta di un personaggio che si riscatta nel corso del suo viaggio, che piano piano - aiutata dalla sua famiglia, e dalla scoperta della vera storia di Mamie e del suo dolore - riesce ad affrontare la sua paura più grande, paura descritta in maniera fresca e spontanea dall'autrice, paura che tutti abbiamo conosciuto: la paura di soffrire, di aprirsi al prossimo, cui consegue il timore di non essere più in grado di amare.



consigliato: sì!


Nella foto, Place des Vosges a Parigi. Photo by.. la mia mamma!

(post pubblicato, in origine, qui)