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mercoledì 21 maggio 2014

Intervista a Rebecca Domino, autrice di "Fino all'ultimo respiro"

Dopo aver letto e recensito Fino all'ultimo respiro, ho voluto approfondire la conoscenza dell'autrice rivolgendole alcune domande, sia sul romanzo stesso, sia sulla sua attività di scrittrice.

 Dopo aver letto Fino all'ultimo respiro, è abbastanza scontato che la prima domanda sia: perché hai scelto di trattare questo tema? Quali sono i passi che hai compiuto per avvicinarti a questa tematica così complessa, piena di "problemi"?

Non è stata una scelta. Stavo scrivendo un altro romanzo, uno di quelli che scrivo per me stessa, quando improvvisamente mi è venuta l’idea per Fino all’ultimo respiro. Naturalmente non sapevo ancora il titolo o la trama dettagliata, ma sapevo di voler raccontare la vita attraverso l’amicizia improvvisa fra una ragazza qualunque, Allyson, e la sua coetanea Coleen, resa suo malgrado “speciale” perché malata di leucemia da due anni e mezzo. Non ho mai pensato di scrivere il romanzo dal punto di vista di Coleen perché per fortuna non ho mai avuto un tumore e non conosco nessun adolescente che abbia affrontato quella terribile battaglia, ma purtroppo ce ne sono sin troppi che ogni giorno affrontano la chemio, le radiazioni, gli effetti collaterali, il dolore, la paura e il modo in cui le loro vite sono cambiate, e mi sono detta che non avrei mai osato mettermi nei panni di qualcuno che vive una vita così diversa dalla mia, sapendo che se avessi commesso anche solo un errore non me lo sarei perdonata. Allo stesso tempo, m’incuriosiva trattare come il rapporto con una coetanea malata può cambiare in meglio la vita di una ragazza come tante. Attraverso Coleen non viviamo solamente la sua malattia, ma ho voluto inserire nel romanzo delle scene in cui le due amiche sono paritarie, in cui Coleen consola o aiuta Allyson, e non è sempre Allyson a occuparsi di lei, solo perché Coleen ha il cancro.
Prima di scrivere un romanzo, mi documento sempre sull’argomento che vado a trattare: non sono un medico, non ho mai studiato medicina ma mi sono documentata più che ho potuto, sia sul cancro sia sulla leucemia in particolare. Allo stesso modo, ho guardato, letto e ascoltato numerose testimonianze degli adolescenti con il cancro, ma ve ne parlerò meglio nella risposta alla domanda numero quattro, quella in cui mi si chiede come mai ho scritto un personaggio come Coleen, nettamente positivo. Comunque sicuramente quello che ho trovato in quelle storie è stato ciò che mi ha spronato ad andare avanti, a scrivere il romanzo e a darmi da fare per promuoverlo.

Se hai letto La custode di mia sorella, e/o Voglio vivere prima di morire, che in due modi diversi affrontano il tema della malattia terminale in una ragazza giovane, adolescente, cosa pensi di questi libri? E qual è stato il tuo rapporto con questi precedenti?

Ho letto La custode di mia sorella molti anni fa, quindi non lo ricordo nei dettagli, ma non mi è piaciuto molto. Non sto a discutere lo stile e cose del genere, semplicemente io non avrei mai scritto un romanzo con due sorelle come protagoniste, dove la maggiore ha la leucemia e l’altra si rifiuta di continuare ad aiutarla donandole il suo midollo ecc. Capisco che dev’essere difficile sapere di essere stata concepita solo come possibile salvatrice della sorella maggiore ma, come sai, io ho una sorella, Sofia, di tre anni più piccola di me, e siamo legatissime. Se Sofia avesse la leucemia ed io fossi la sua unica possibilità di salvezza, di sicuro non tirerei in ballo gli avvocati e non mi rifiuterei di continuare ad aiutarla. Inoltre, non condivido il finale, che secondo me è un po’ una “via facile”. Per quanto riguarda Voglio vivere prima di morire ne ho sentito parlare ma non l’ho letto, so che racconta la storia di una ragazza malata terminale, Tessa, che butta giù una serie di esperienze che vuole provare prima di morire. Non avendo letto il libro non me la sento di giudicarlo e l’idea alla base è carina, ma con il mio romanzo voglio far capire ai lettori che i ragazzi con il cancro cercano la normalità. Certo, molti vogliono togliersi degli sfizi, realizzare piccoli e grandi sogni, specialmente quando il cancro diventa terminale, e infatti Coleen vuole andare a vedere le balene, vuole assistere a un concerto del suo gruppo musicale preferito… ma questi episodi sono quasi un sottofondo al suo desiderio di normalità infatti, quando Allyson le propone di andare a Disneyland e fare tutta un’altra serie di cose per rendere speciali i suoi giorni, Coleen rifiuta. Questo è un punto molto importante di “Fino all’ultimo respiro”: è facile rendere speciali una manciata di giorni, per esempio andando in mongolfiera, visitando posti lontani e realizzando altri sogni, la vera sfida è rendere ogni singolo giorno, con la sua apparente banalità, degno di essere vissuto.

Sei un'autrice italiana, eppure il tuo romanzo è ambientato in un villaggio della Scozia. Puoi spiegarci i motivi di questa scelta?

Prima di cominciare a scrivere il romanzo, mi sono chiesta se ambientarlo in Italia o meno. Ho fatto delle ricerche sugli adolescenti che vivono con il cancro nel nostro Paese e ne è uscita una realtà desolante: sì, ci sono alcuni reparti per i ragazzi e le ragazze con il cancro, e proprio nella mia regione stanno cercando di aprirne uno all’ospedale Meyer di Firenze, ma in generale in Italia gli adolescenti che si ammalano di cancro si ritrovano in una sorta di “terra di nessuno”, pertanto non mi sembrava che ci fossero le basi necessarie per sviluppare tutto un romanzo in un Paese dove non penso che gli adolescenti con il cancro siano molto considerati. Ho vissuto per un anno a Londra, e so che nel Regno Unito le cose sono diverse: ho ambientato Fino all’ultimo respiro ad Avoch, piccolo paesino scozzese (che esiste davvero, ma dove non sono mai stata) spinta dalle atmosfere cupe, selvagge e malinconiche dalla zona, e anche perché, come forse sapete, il romanzo è leggibile gratuitamente così da spronare i lettori a donare a Teenage Cancer Trust, un ente benefico inglese che si occupa in toto degli adolescenti che vivono con il cancro. Mi sembrava sbagliato e insensato criticare la situazione italiana e non fare niente per mostrare che sarebbe possibile mobilitarci per i nostri giovani colpiti dal cancro; attraverso il mio romanzo voglio parlare anche di Teenage Cancer Trust, sperando che sempre più persone ne parlino, per far sì che qualcuno ai “piani alti” si renda conto che anche nel nostro Paese dovrebbero esserci enti benefici del genere. Teenage Cancer Trust è stato fondato nel 1990 e si occupa sia dell’aspetto medico degli adolescenti e dei giovani adulti (13-24 anni) con il cancro, sia del supporto ai famigliari e agli amici, della ricerca e soprattutto considera gli adolescenti come dei giovani e poi come dei malati di oncologia. Con ventisette reparti sparsi un po’ in tutto il Regno Unito (e pianificano di aprirne altri sette) il personale di Teenage Cancer Trust, specializzato nel curare adolescenti e giovani adulti, offre una “casa lontano da casa”, un ambiente in cui i giovani possano curarsi insieme con dei coetanei, leggendo dei giornali, dei libri, chiacchierando e confrontandosi, divertendosi con delle partite di biliardo ecc… se essere diagnosticati con il cancro è terribile per chiunque, per un adolescente lo è ancora di più perché si trova in un momento delicato della sua vita, sta cercando la sua indipendenza e spesso a causa delle cure e della debolezza è costretto a perderla, anche se solo temporaneamente, e dovrebbe pensare solo allo studio o al lavoro, oltre che a divertirsi con gli amici, invece deve imparare dei termini medici, deve fare i conti con la perdita dei capelli, con le infezioni, con gli effetti collaterali della chemio e delle radiazioni (nausea e vomito sono solo due di questi), con la paura della morte, ecc… ecco perché condividere il viaggio con dei coetanei è fondamentale. Ci sarebbero così tante cose da dire su Teenage Cancer Trust, l’ente è supportato esclusivamente dalle donazioni di privati e aziende e fa davvero la differenza nelle vite degli adolescenti con il cancro. Ecco perché ho ambientato il romanzo in Scozia, per dar voce al lavoro di Teenage Cancer Trust sperando che, in un futuro non troppo lontano, anche l’Italia avrà un ente benefico del genere, che abbraccia numerosi padiglioni ospedalieri, le cui attività però si svolgono anche oltre l’ospedale, supportato da grandi nomi dello spettacolo (per esempio, le celebrità musicali si ritrovano ogni anno alla Royal Albert Hall di Londra per dei concerti in favore di Teenage Cancer Trust); un ente che mette al centro del suo lavoro il far sì che gli adolescenti con il cancro si sentano trattati come i loro coetanei sani, che possano condividere le loro preoccupazioni e le loro gioie con persone vicine alla loro età e che ricordi a tutti che avere il cancro non significa dover smettere di vivere. Il romanzo è leggibile gratuitamente, per riceverne una copia in PDF vi basta mandarmi una mail a: rebeccaromanzo@yahoo.it e incoraggio i miei lettori a donare quello che possono a Teenage Cancer Trust, in maniera veloce e sicura, tramite la mia pagina Justgiving, di cui trovate il link qui sotto:
https://www.justgiving.com/Rebecca-Domino

Nella mia recensione, ho sollevato dei dubbi sulla veridicità del personaggio di Coleen. Puoi rispondere a questa obiezione, spiegandomi perché hai deciso di tratteggiare un personaggio così nettamente positivo?

Sono contenta che tu mi abbia fatto questa domanda perché non mi sono seduta a tavolino, prima di cominciare a scrivere il romanzo, e ho detto “voglio che Coleen sia un personaggio totalmente positivo”. E’ successo perché, come faccio prima di ogni romanzo, mi sono documentata sull’argomento che avrei trattato e mi sono ritrovata a leggere, guardare e ascoltare delle testimonianze degli adolescenti con il cancro. Mi aspettavo storie di dolore, paura, preoccupazione, rabbia e morte e, naturalmente, in quelle storie si parla di tutte queste cose, com’e’ normale con delle persone che hanno a che fare con il cancro, ma non mi aspettavo tutta quell’energia, quell’altruismo, quella forza, quei sorrisi e quell’amore per la vita che invece vi ho trovato! Nel romanzo, Coleen ha dei momenti “no”, il suo umore oscilla e, quando parla della sua vita subito dopo la diagnosi, ammette che non era forte e ottimista com’e’ dopo due anni e mezzo di “convivenza forzata” con la malattia, e accenna addirittura all’essere caduta in depressione. Ho voluto inserire questi lati perché fanno parte dell’avere il cancro ma io stessa sono rimasta a bocca aperta di fronte alle storie che ho letto e ascoltato, di fronte a ragazzi e ragazze più giovani di me che, pur avendo il cancro, vogliono fare qualcosa delle loro vite e vogliono vivere normalmente, con il sorriso sulle labbra. Lasciate che vi accenni alcune di queste storie… ricordo quella di Allister, diciannovenne scozzese cui è stato diagnosticato il cancro; nel 2008 (dopo tre anni di cure) la diagnosi è diventata terminale. Allister ha reagito con umorismo, forza di volontà e ottimismo e il suo scopo principale era raccogliere fondi per l’apertura di un reparto di oncologia per ragazzi dai 13 ai 16 anni nel suo paese natale così che non fossero più curati con i bambini piccoli. Il ragazzo ha organizzato un party con oltre duecento persone raccogliendo 500.000£ a favore di Teenage Cancer Trust e poi ha lavorato duramente per organizzare una giornata di divertimento totale nel suo villaggio natale, che comprendeva una maratona, la tombola, quiz in un pub ecc, il tutto sempre per raccogliere fondi a favore di Teenage Cancer Trust. Allister è morto il giorno prima dell’evento (che si è tenuto comunque, gestito dai famigliari) e le persone che l’hanno conosciuto lo ricordano come un ragazzo che ha affrontato il cancro senza mai lamentarsi perché era capitato a lui e non a qualcun altro.
Poi c’è Melissa, ragazza americana cui è stato diagnosticato il cancro a diciassette anni. Nonostante le cure e gli effetti collaterali, nonché l’incertezza per il futuro, Melissa non ha raccontato a nessuno della sua malattia e ha finito le scuole superiori come una ragazza qualunque. Non voleva essere trattata con i guanti solo perché malata di cancro. Quando ha dovuto cominciare delle sessioni molto dure di chemio, Melissa non ha perso il suo spirito e, affrontando la chemio e le radiazioni, si è iscritta all’Università e, nonostante l’aver perso i capelli, il vomito, la sensazione generale di stanchezza e gli altri effetti collaterali, ha completato tutti i corsi. Dopo delle complicazioni in seguito a un trapianto di midollo osseo, Melissa ha perso per tre settimane la capacità di parlare, di mangiare da sola e di camminare. Quando ha ricominciato a stare meglio, ancora incapace di leggere a causa di problemi alla vista, a malapena in grado di camminare e capace di parlare solo farfugliando, ha ripreso a frequentare i corsi universitari. A un certo punto, quando la diagnosi è diventata terminale, Melissa ha scelto di rinunciare alla chemio e alle radiazioni perché non l’avrebbero guarita e l’avrebbero costretta a sentirsi debole e a subire nuovamente vari effetti collaterali. I medici le hanno detto che non c’era più speranza, non c’era più niente da fare. Niente, se non vivere. E Melissa l’ha fatto seguendo il suo motto: “sii gioiosa, alza la testa al cielo e grida”. Chi l’ha conosciuta, dice che Melissa si vedeva sempre come una ragazza viva, mai come una in procinto di morire. Ha combattuto contro la malattia, non contro la morte. Sapeva che sarebbe morta, come succederà a tutti noi. Melissa è morta a diciannove anni, dopo tre mesi vissuti senza gli effetti collaterali dei trattamenti, mesi in cui ha vissuto belle esperienze, ha frequentato dei corsi e ha ricevuto una laurea speciale per coloro che ne sono degni anche se non possono concludere gli studi.
C’e’ Shelbee, ragazza inglese cadetto della polizia che, quando ha ricevuto la diagnosi di cancro, ha continuato a impegnarsi nel suo lavoro nonostante la stanchezza e il dolore, assentandosi solo quando era in ospedale per le sedute di chemio e andando in centrale anche quando era sulla sedia a rotelle. Ricordo la storia di una ragazza, di cui non rammento il nome, la cui amica aveva il cancro e l’unico modo per rimuovere il tumore sarebbe stato amputarle la gamba. Questa ragazza, appresa la notizia, telefonò all’amica per sentire come stava dato che aveva appena saputo che le avrebbero tagliato la gamba e questa rispose “posso richiamarti dopo? Voglio finire di vedere la puntata di Gossip Girl”.
E poi c’è Stephen Sutton, il ragazzo di cui tutta l’Inghilterra (e non solo) sta parlando: diciannove anni, dopo due anni di lotta contro il cancro adesso la sua malattia è considerata incurabile. In questi anni Stephen non ha mai perso il suo sorriso e il suo ottimismo e si è impegnato molto organizzando eventi di ogni tipo per raccogliere fondi a favore di Teenage Cancer Trust, così da poter aiutare altri adolescenti nella sua situazione. La storia di Stephen è venuta ancor più alla ribalta quando, il 22 aprire di quest’anno, il ragazzo ha postato sulla sua pagina Facebook quella che credeva che sarebbe stata la sua ultima foto con i “pollici alzati” (simbolo di forza e positività) poiché le sue condizioni erano peggiorate e i dottori gli avevano detto che gli  rimaneva pochissimo tempo da vivere. Anche in quel momento, Stephen ha scritto parole d’incoraggiamento e ottimismo, spronando ancora una volta le persone a donare a Teenage Cancer Trust ed è riuscito a raccogliere fondi per l’ente benefico per una somma che supera le tre milioni di sterline! Stephen ha “tossito uno dei tumori” e dopo un’operazione è stato rimandato a casa, ma purtroppo in questi giorni è stato di nuovo ricoverato in ospedale. La sua malattia è ancora terminale. Ci sarebbero tante altre storie da raccontare, ma ho voluto raccontarvi queste perché dico no, non ho creato un personaggio irreale; attraverso Coleen ho voluto raccontare la forza, il coraggio, l’altruismo e il sorriso di questi ragazzi. Tutto ciò sembra incredibile anche a me, e allora concludo la risposta con delle parole che Stephen ha scritto qualche giorno fa, quando stava relativamente bene, sulla sua pagina Facebook:
“Tantissime persone mi chiedono come possono aiutarmi personalmente e la risposta è… non lo so, sono piuttosto contento di come sono le cose al momento. Il vostro supporto è stato immenso e profondamente apprezzato, anche se forse è stato più di quanto non meriti. Quello che sto cercando di dire è che ci sono altri adolescenti con il cancro che stanno lottando duramente tanto quanto sto facendo io e che meritano lo stesso supporto, e ci sono persone che combattono contro altre malattie e altre persone ancora che necessitano del vostro supporto per qualunque altro motivo”. Queste sono le parole di un ragazzo di diciannove anni che ha ancora pochissimo tempo da vivere e che ha raccolto ben oltre 3 milioni in favore di un ente che si occupa di ragazzi come lui. Sono le parole di un ragazzo che con la sua voce ha ispirato milioni di persone. No, non penso che Coleen sia un personaggio troppo positivo o lontano dalla realtà.


A questo punto, direi che è il caso di concentrarsi direttamente sulla tua attività di scrittrice. Quale porzione occupa questa attività nella tua vita?

La scrittura è molto importante per me, anzi, direi che è fondamentale. Mi reputo molto fortunata ad avere una passione così forte, che porto con me sin dall’infanzia. Non posso mantenermi con quello che scrivo, quindi svolgo altri lavori, ma la scrittura è quello che mi sta davvero a cuore e quando promuovo un romanzo tengo molto anche a tutto il lavoro necessario per diffonderlo (segnalazioni, interviste, articoli…), perché mi permette di mandare in giro per l’Italia il mio lavoro e di farlo arrivare ad altre persone. Dedico diverso tempo alla scrittura, anche a seconda del periodo in cui mi trovo e degli impegni che ho; per esempio, adesso che ho appena cominciato a promuovere “Fino all’ultimo respiro”, non ho tempo per scrivere altri romanzi, neanche quelli che scrivo solo per me, per il piacere di farlo, ma di sicuro continuerò a scrivere finché potrò perché mi soddisfa pienamente e mi rende felice.

6) Per quale motivo hai scelto, come anche tua sorella, di presentarti come autrice indipendente, senza affidarti a un editore? Quali sono, secondo te, le possibilità del self - publishing?

Ho scelto di presentarmi come una scrittrice indipendente per vari motivi. Prima di tutto perché così posso scrivere quello che voglio e posso presentarlo ai miei lettori come meglio credo, senza tagli “necessari” perché i prodotti si assomiglino l’un l’altro o per togliere messaggi o scene scomode. Naturalmente essere autopubblicata significa avere più impegni e anche più responsabilità, ma a me piace occuparmi in toto del mio lavoro, dalle numerose fasi di editing alla promozione. Per quanto riguarda le responsabilità intendo dire che se uno scrittore ha alle spalle una grande casa editrice può sempre dire “sono stati loro, che ci capiscono di libri, a scegliere il mio” mentre un indipendente deve credere 100% nel proprio lavoro, affrontare le eventuali critiche e gestire il tutto. Nel corso degli anni ho scritto vari romanzi e di tutti quelli reputo validi solo quelli che ho pubblicato finora, ovvero “La mia amica ebrea” e “Fino all’ultimo respiro”. Credo totalmente in questi miei due lavori, hanno dei messaggi che voglio diffondere e sono storie che mi emozionano molto, per questo affronto le valanghe di mail cui devo rispondere, scrivo ai numerosi blog o siti con cui mi piacerebbe collaborare e via dicendo. Per un autore indipendente è fondamentale il supporto dei blogger e anche dei siti Internet; prima di pubblicare il mio primo romanzo, “La mia amica ebrea”, ammetto che ero un po’ scettica perché la maggior parte dei lettori legge altri generi di libri, invece non solo ho ricevuto un grande supporto dalle blogger ma anche da alcuni siti, inclusi quelli specifici sull’argomento, come i siti sugli ebrei. Anche i lettori sono molto importanti e penso che il classico passaparola possa fare la differenza per un autore indipendente. Poi, naturalmente, tutto dipende da quello che una persona desidera: io non voglio la fama, non me ne importa niente di pubblicare con una grande casa editrice, quello che voglio è che i miei romanzi siano letti, sperando che arrivino ai cuori dei lettori e sperando di scuotere qualcosa nelle loro anime; con “Fino all’ultimo respiro” inoltre voglio lanciare messaggi importanti, gli stessi che ho appreso leggendo e ascoltando le testimonianze dei ragazzi con il cancro e se, dopo aver sentito la voce di Coleen, anche solo una persona capisse il significato di tutte le sue parole e cambiasse attitudine nella vita, orientandosi maggiormente verso l’aiutare gli altri, il dimenticare le frivolezze e, in generale, il vivere davvero ogni momento, sarei molto più soddisfatta che se fossi contattata da un grande editore o se il mio libro fosse il primo nella classifica dei best-seller indipendenti. Infine, l’essere indipendente mi permette di avere maggiore scelta sul prezzo di vendita o, come nel caso di “Fino all’ultimo respiro”, di rendere leggibile gratuitamente il romanzo, incentivando i miei lettori a donare a una causa benefica. Naturalmente ci sono anche le piccole-medie case editrici, ma solitamente queste vendono i loro libri o ebook a prezzi altissimi per il mercato, quindi vendere delle copie è praticamente impossibile e la pubblicità che fanno agli autori è pari allo zero, quindi una persona deve comunque rimboccarsi le maniche e contattare da solo le blogger, i siti e via dicendo, allora tanto vale autopubblicarsi e avere il pieno controllo sui propri romanzi.

Personalmente, sono una grande sostenitrice dell'editoria digitale, che non credo comporterà la morte di quella tradizionale ma può dare una scossa al mercato e attrarre una fetta maggiore di pubblico. Il mio sogno sarebbe quello di poter acquistare e scaricare gli ebook direttamente in libreria. Hai voglia di dirmi la tua opinione in merito?

Che bella idea! Sì, piacerebbe molto anche a me e chissà che in un futuro non troppo lontano non accadrà, anche se temo che si tratterebbe sempre degli stessi nomi che popolano le librerie e che per gli autori indipendenti non ci sarebbe questa possibilità. Sicuramente gli ebook attraggono una maggiore fetta di pubblico, anche per via dei prezzi decisamente più economici rispetto a quelli dei cartacei. Io non ho il kobo o quello che serve per leggere i libri in digitale, ma moltissime persone ormai si affidano a questa nuova realtà. Non so se l’ebook, con il passare del tempo, non porterà alla morte dell’editoria tradizionale. A essere onesta temo che alla fine succederà. Pian piano tutto diventerà sempre più tecnologico e magari fra cinquecento anni i libri cartacei non esisteranno più, o saranno esposti solo nei musei. Il libro cartaceo è qualcosa di speciale, a me piace molto sfogliarne le pagine, sentire la carta sotto le dita, ma come autrice dico che l’editoria digitale è molto più conveniente e mi chiedo quante delle persone che hanno letto La mia amica ebrea in ebook l’avrebbero comprato in cartaceo. Quindi sì, sono anch’io una grande sostenitrice dell’editoria digitale, perché permette praticamente a tutti di pubblicare (anche se questa naturalmente è un’arma a doppio taglio) e permette agli autori di avvicinarsi a una fetta di pubblico sempre più grande, eliminando le spese di produzione del libro ma anche quelle d’invio delle copie per le recensioni. Io resto dell’opinione che, con il passare del tempo, l’ebook avrà la meglio sul libro cartaceo; forse non nel mio arco di vita, ma, lo ripeto, penso che tra tantissimi anni i libri cartacei diverranno inutili, e questo naturalmente sarebbe un terribile prezzo da pagare per l’avanzare dell’editoria digitale.

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