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venerdì 21 dicembre 2012

Recensione: “Eredità”–Lilli Gruber

TRAMA (da aNobii): È il novembre del 1918, e il mondo di Rosa Tiefenthaler è andato in frantumi. L’Impero austroungarico in cui è nata e vissuta non esiste più: con poche righe su un Trattato di pace la sua terra, il Sudtirolo, è passata all’Italia. “Il nostro cuore e la nostra mente rimarranno tedeschi in eterno”, scrive Rosa sul suo diario. Colta e libera per il suo tempo, lo tiene da quasi vent’anni, dal giorno del suo matrimonio con l’amato Jakob. Mai avrebbe pensato di riversare nelle sue pagine una così brutale lacerazione. Ne seguiranno molte altre. In pochi anni l’avvento del fascismo cambia il suo destino. Cominciano le persecuzioni per lei e per la sua famiglia, colpevoli di voler difendere la loro lingua e la loro identità: saranno arrestati, incarcerati, mandati al confino. E Rosa assiste impotente al naufragio di tutte le sue certezze. Intorno a lei, troppi si lasciano sedurre da un sogno pericoloso che si sta affacciando sulla scena europea: quello della Germania nazista. Non potrà impedire che Hella, la figlia minore, sia presa nel vortice dell’ideologia fatale di Hitler. E presto dovrà affrontare la scelta impossibile tra l’oppressione e l’esilio. Nata austriaca, vissuta sotto l’Italia, morta all’ombra del Reich, Rosa è il simbolo dei tormenti di una terra di confine. Su quella frontiera è cresciuta Lilli Gruber, sua bisnipote, che oggi attinge alle parole del suo diario. E racconta una pagina di storia personale e collettiva in questo libro appassionato, teso sul filo del ricordo, illuminato da una felice vena narrativa. Intrecciando testimonianze e documenti, lettere e memorie, apre ai lettori le porte di un Sudtirolo dilaniato e splendido, dietro cui si stagliano un’Italia presa nella morsa della dittatura e un’Europa travolta dall’incubo delle guerre mondiali.
All’inizio della lettura, sono stata tentata di abbandonare questo libro: ero un po’ annoiata, affaticata da quello che – pur essendo stato presentato dalla sua autrice a Che tempo che fa come un romanzo – mi sembrava un saggio storico neanche troppo brillante. Arrivata a più o meno un quarto del libro, ho riveduto totalmente la mia posizione: Eredità di Lilli Gruber è avvincente (quasi) come un romanzo, insegna come un saggio storico e fa riflettere ancora di più.

E’ avvincente come un romanzo perché – come si evince dalla trama – ci tiene ancorati alla storia di una famiglia precisa, e soprattutto alle vite di due donne ben delineate: la coraggiosissima Rosa, bisnonna della Gruber, e la di lei figlia minore, Helena detta Hella.

Insegna, e molto, perché parla di qualcosa a cui nessun docente di storia ha mai fatto più di un rapido cenno, né a scuola, né all’università; qualcosa che i libri di storia non raccontano come dovrebbero: la questione del Sudtirolo, la sua annessione all’Italia dopo la Grande Guerra, l’italianizzazione forzata avvenuta sotto il fascismo, la conseguente proibizione di parlare il tedesco. La speranza, di molti, che l’avvento di Hitler fornisse una via di fuga al fascismo, un’occasione per riappropriarsi della propria cultura, della propria lingua, della propria libertà. La terribile questione dell'opzione: i cittadini del Sudtirolo dovettero scegliere, entro il 31 dicembre del 1939, se abbandonare le loro terre per trasferirsi nel Reich e tornare a essere “tedeschi” o rimanere sul loro suolo natio e rinunciare per sempre alla loro cultura. In 70.000 lasciarono le loro case.

Lilli Gruber ci racconta tutto questo e molto di più. Ci racconta la storia di Hella, il suo arresto, la tragica esperienza del confino, la sua liberazione avvenuta grazie alla sorella Berta, che riuscì ad avvicinare Ciano a Vienna.  Osserva perplessa la sua adesione all’ideologia hitleriana, senza cercare di giustificarla: era chiaro a molti che Hitler non era davvero interessato al Sudtirolo, ma tanti si illusero. Ci fa guardare la Storia del Sudtirolo da un altro punto di vista, portandoci a porci delle domande sulla retorica questione dell’irredentismo. Ci racconta la Storia attraverso la storia della sua famiglia, dal 1902 al 1940, affrontando anche la questione dell’antisemitismo con uno stile asciutto, lontano tanto dalla freddezza quanto dal patetismo. Ci rende partecipi della tragedia di quei cittadini sudtirolesi privati dall’oggi al domani della loro lingua, e obbligati a parlare in italiano. Ci racconta il dolore di tanti giovani nel dover prestare servizio militare sotto la bandiera italiana, nemica.

Ho un debole per la Gruber da quando, in terza elementare, l’ho interpretata in una recita scolastica, con tanto di parrucca rossa. Leggendo questo libro ho apprezzato particolarmente il suo modo obiettivo e sempre attento, critico, di osservare gli eventi. Di descrivere il Brennero, che con l’abolizione delle frontiere ha perso vitalità; di raccontare di un suo tragico viaggio in treno; di affrontare questioni politiche e sociali che oggi, più che mai, sono importanti. Ho apprezzato il suo coraggio nello scrivere che “il passato resiste, ma la memoria è sempre troppo corta”, nel far notare che dopo l’arresto di Mussolini tutti i suoi sostenitori si dissolsero, facendo apparentemente dell’Italia un paese abitato solo da nemici del regime, e lo stesso fu per l’adesione al nazismo da parte dei sudtirolesi.

Sul Kindle ho evidenziato molto, vi lascio un passaggio solo. Il grassetto è mio.

“Queste vette non hanno più storie da raccontare, né tristi né gioiose, il passo è diventato il simbolo di un continente senza più frontiere, dove certe lezioni sono state apprese. Ma sarà poi così vero? A quasi un secolo dal crollo degli Imperi centrali, una nuova e grave crisi economica, politica e morale minaccia oggi con i suoi sconvolgimenti la costruzione di un’Europa riconciliata”.

(Post pubblicato, in origine, qui)

mercoledì 12 dicembre 2012

Battle Royale–Koushun Takami

TRAMA (da Wikipedia) : Nella "Repubblica della Grande Asia", uno stato totalitario geograficamente localizzato nel Giappone della realtà, vige il BR Act. Secondo tale legge, ogni anno viene scelta tramite sorteggio una classe di terza media per partecipare al cosiddetto Programma. Il gioco consiste in una lotta all'ultimo sangue in cui i giovani e sorpresi (perché tenuti all'oscuro di tutto, e trasportati sul posto con l'inganno) partecipanti devono impugnare l'arma, affidata loro a caso, contenuta in uno zaino e uccidersi a vicenda in un luogo scelto appositamente dal governo, precedentemente evacuato: in questa edizione si tratta di un'isola deserta e sconosciuta. Per costringerli a partecipare, tra i vari espedienti c'è un collare che fornisce al centro di controllo la posizione degli studenti e che esplode in caso di fuga o di ammutinamento. L'obiettivo è che rimanga un solo superstite, l'unico che potrà fare ritorno a casa. Gli studenti sono 42, 21 maschi e 21 femmine.
I miei lettori abituali faranno un salto sulla sedia, a vedere questa recensione. Infatti, questo libro non è assolutamente ascrivibile al novero di quelli che sono solita leggere, anzi. Se non me l’avesse consigliato un amico, che ringrazio, mai e poi mai sarei venuta a conoscenza dell’esistenza di questo romanzo. E soprattutto, mai e poi mai l’avrei letto. Ci ho messo un po’ a macinarmi queste 650 pagine (nell’edizione Kindle), un po’ più di una settimana, che per i miei standard è un tempo lungo per un libro, per quanto possa essere corposo.
La trama è semplicissima. Il tema dominante è sostanzialmente l’amicizia: in un “gioco” simile, in cui si è tutti contro tutti, di chi ci si può ancora fidare? Predominano l’amicizia e l’affetto, o un istinto di sopravvivenza che si trasforma in attacco, in violenza, se la paura di morire ti porta ad attaccare e a uccidere per primo? Ci sono quarantadue ragazzini spaventati in questo libro, vittime di un sistema politico definito “fascismo perfetto” : “la cosa più vicina a una religione era la fede nel sistema politico…”. Paradossalmente, per motivi che spiegherò meglio oltre, è stata soprattutto questa presenza inquietante e incombente di un regime che chiamare totalitario è riduttivo a turbarmi profondamente. Questa assenza totale di libertà, perché, come ci spiega Shogo, i governanti proclamano che “ovviamente, ogni cittadino ha il diritto alla libertà, però quest’ultima deve essere controllata per l’interesse del bene pubblico”.
I ragazzini sono quindi pedine di questo governo, vittime di un gioco perverso, oggetto di scommesse da parte dei supervisori. In alcuni casi, i più insignificanti e piccoli dettagli della loro vita precedente assumono un valore enorme, spropositato. Diventa importante chi ha una cotta per chi, chi è stato gentile con chi. Chi ha aiutato chi, chi ha sorriso a chi, come e quando. Diversamente, la paura dell’altro porta anche a rimuovere i dettagli positivi, a trasformare quelli che prima erano amici in nemici da annientare. Un viaggio nella psiche umana in ogni ricordo, ogni piccolo pensiero riveste un ruolo importantissimo nel prendere le decisioni, nello scegliere se stipulare un’alleanza o se uccidere.
Una lettura affascinante, da questo punto di vista. Takami ci guida con precisione tra questi adolescenti: seguiamo la vicenda di Shuya, Noriko e Shogo come quella principale, ma con un ritmo alternato seguiamo anche quella degli altri personaggi. Partecipiamo alla loro follia, alla loro paura, alla loro morte. Morte che avviene sempre in maniera – ovviamente – violenta, e che ci viene descritta con toni altamente sanguinari e a tratti un po’ splatter. Mi è toccato saltare qualche pagina, lo ammetto.
Non sono sicura sia corretto valutare lo stile di Takami con criteri occidentali, ma ci provo. E’ uno stile freddissimo. Acuto, preciso, analitico, a tratti straniante: abbandona di colpo il personaggio per commentarne i pensieri e le azioni; procedimento che mi è piaciuto. Eppure, è uno stile a parer mio TROPPO freddo. L’ansia dobbiamo provarla noi, costruirla noi. Non veniamo aiutati. L’autore descrive le paure dei ragazzi, ma con tono asettico. Non ci sono passaggi coinvolgenti. Anche il tempo…il tempo qui è tutto, più il tempo passa più il gioco diventa difficile, aumentano le zone in cui i giocatori non possono più andare, il rischio che il collare esploda si fa sempre più alto… ma niente, non percepiamo nessun senso del tempo che scorre, nessuna ansia legata al suo corso inesorabile…Anche sul finale, dominato da una serie di colpi di scena, mi è capitato solo una volta di provare una piccola emozione non auto – indotta (per evitare spoiler, non vi dirò quando..), mentre per il resto sono rimasta indifferente a questo stile iperdescrittivo e razionalistico.
In conclusione… Consigliato sì, perché è comunque una lettura “diversa” e il libro è scritto bene, dal punto di vista lessicale – sintattico. Lo sconsiglierei a chi è troppo impressionabile, però.
Vi lascio la citazione… “Questa vita di merda è quella che si può avere in un paese di merda come il nostro. Ma sai, noi abbiamo anche la capacità di sentirci felici e di divertirci, no? Sono piccole cose, ma è abbastanza per colmare questo vuoto”.

(Post pubblicato, in origine, qui)

venerdì 30 novembre 2012

Il tempo tagliato–Silvia Longo


_il-tempo-tagliato-1348533623Trama: Nella luce di un giugno radioso e sfacciato, Viola sente crescere il vuoto delle sue giornate. Ha quarantatré anni, e per metà della vita è stata moglie devota di un acclamato direttore d’orchestra e madre di una figlia avuta da giovanissima. Nient’altro, nessuna concessione a se stessa, nessun inciampo, nemmeno ora che, con la morte improvvisa del marito e una figlia ormai adulta, le sue giornate sono scandite dalla solitudine. Il pomeriggio del solstizio d’estate, durante un concerto in memoria del marito, Viola conosce un uomo e qualcosa accade dentro di lei: una breccia nel muro, un’infiltrazione d’acqua nelle crepe, un punto di sutura che si dissolve. Mentre nel chiostro assolato risuonano le note di Bach, un’impacciata Viola in abito da cocktail, il filo di perle al collo e i capelli raccolti, lascia il concerto e fugge in macchina con lui. La tentazione è quella di abbandonarsi, di lasciarsi portare dalla corrente, ma l’autocontrollo è la disciplina in cui Viola eccelle e quello che sta succedendo non è solo sconveniente: è assurdo. Eppure è tardi per tornare indietro, perché il viaggio è iniziato, e con quell’uomo lei sta andando esattamente dove desiderava da tempo: lontano. Lontano da tutto per avvicinarsi alla sua verità, semplice e scandalosa.

Ho letto questo libro due volte, nel giro di una settimana, dopo averne letto la presentazione sul blog di HP. Due volte perché… è un libro da leggere, da assaporare lentamente. La storia raccontata è semplice: non scontata e non banale, ma semplice. Il punto di forza di questo libro è un altro: è il modo in cui è scritto, la purezza della sua prosa, la forza evocativa di certe immagini.  Non credo che riuscirò a costruire una recensione obiettiva di questo romanzo: mi ha rapita troppo, è a tutti gli effetti il più bello letto nel 2012.
“Mi sono sempre adeguata”
Questo è il punto di partenza della storia di Viola, la frase che ieri sera ho evidenziato sul Kindle aggiungendo una nota.. “parti da qui”. Eh sì, l’ho riletto sottolineando, annotando. Potrei scrivere pagine e pagine, mi trattengo, faccio la brava.                                                                                                                  
Viola si è sempre adeguata, è sempre rimasta un passo dietro al marito ricco e famoso. Una forma di amore, la sua: fare in modo che nessuno, né lui, né la figlia, soffrano: solo lei può soffrire, soffocata nella morsa di un’esistenza lussuosa, troppo lussuosa.
… “Quante frasi garbate da costruire, quante arterie flessuose fanno di noi persone rispettabili? E come splendere quando tutto intorno è opaco?”
Ecco, questo è la storia di Viola. Stare al passo, occuparsi di tutto e di tutti, soffocare il suo dolore, il suo sentirsi incompresa. Le sue opinioni, i suoi gusti musicali. Era sempre il marito – direttore d’orchestra – a scegliere la musica: era lui l’esperto, perché contraddirlo? Mi sono identificata facilmente, in Viola. Quel senso del dovere schiacciante, quel senso onnipresente di inadeguatezza, di insufficienza. Sentirsi in colpa per tutto, anche per non essere riuscita ad amare fino in fondo il marito, e una gioia segreta per essere riuscita a fingere per anni.  Lei si sente in colpa “per tutto. Se si rompe un bicchiere, se dormo troppo (…) Se il treno che aspettiamo è in ritardo (…) Se la lavastoviglie lascia i bicchieri opachi, se in quella chiesa non c’è una buona acustica. Se il parrucchiere mi sbaglia la piega, se mi ammalo, se invecchio.” In colpa per non essere stata accanto al marito quell’ultima sera, in colpa per aver desiderato una vita senza di lui.
Ti identifichi anche con la figlia di Viola, Vicky. Senti il suo dolore sotto la pelle. Senti davvero quello che ha provato a preparare le valigie, prendere quel treno per correre a casa, dopo che le era stato detto che il suo papà non c’era più. Me la immagino mentre guarda correre i binari dal finestrino, mentre sa che indietro non si può tornare più, che non può cambiare niente…Anche se c’è il suo ragazzo accanto a lei, sperimenta per la prima volta la solitudine, il bozzolo di silenzio in cui ti chiude quel dolore sordo, ché neanche piangere ti salva.
E Mauro, l’uomo che “salva” Viola? Cresciuto con una madre bipolare, una famiglia che ha scelto di abbandonare… dolce e premuroso, riesce a far tirar fuori a Viola una confessione che le spalanca le porte di un’altra vita. E personalmente sono grata all’autrice per quel bacio evitato, per lasciarci scegliere da soli come continua questa storia, per aver scritto che “Ciò che mi appartiene si trova qui, e succede ora”.

é un libro da leggere davvero non per la storia che racconta ma per COME la racconta. Quest’autrice è davvero una rivelazione, e questo libro è perfetto. Perfetto nel descrivere, nel farci percepire. La crisi isterica di Viola sotto la pioggia davanti all’autogrill: da donna, la senti nel cuore e nei nervi. Il dolore di lei nel trovarsi nella casa vuota. “La morte è viva: la mia mente si ostina su questo ossimoro. Leggo la morte in un volto pallido, la sorprendo nel vuoto di un paio di pantaloni troppo larghi sul dietro, la ascolto nel canto di certi uccelli che non passeranno l’inverno”
Il mio passaggio preferito… Viola e Mauro all’autogrill, col temporale fuori e le previsioni meteo alla televisione. E intanto Viola immagina…
“La gente si chiude in casa a doppia mandata, infila i vestiti bagnati nella lavatrice, si asciuga i capelli e indossa il cardigan preferito, quello morbido con le maniche sformate che arrivano a coprire le dita”.

(post pubblicato, in origine, qui)

domenica 25 novembre 2012

La custode di mia sorella - Jodi Picoult

TRAMA:
libroAnna non è malata ma è come se lo fosse. A tredici anni è già stata sottoposta a numerosi interventi chirurgici, trasfusioni e iniezioni in modo che la sorella maggiore Kate possa combattere la leucemia che l’ha colpita in tenera età. Anna è stata concepita con le caratteristiche genetiche che la rendono idonea a essere donatore di midollo per la sorella, ruolo che non ha mai messo discussione ma che ora le diventa, di colpo, insostenibile. Perché nessuno le chiede mai il suo parere? Perché si dà per scontato che lei sia disponibile? Anna prende una decisione per molti impensabile e che sconvolgerà la vita di tutti i suoi cari: fa causa alla sua famiglia.

Un tema forte, quello trattato da Jodi Picoult in questo romanzo. Una storia sconvolgente, in cui pagina dopo pagina ci chiediamo che parte prendere, cosa pensare, cosa dovremmo pensare e non troviamo mai una risposta. Una storia in cui tutti personaggi sono delineati in maniera perfetta, minuziosa. Li conosciamo tutti, li capiamo tutti. Siamo più d’accordo con qualcuno e meno con qualcun altro, ma siamo empatici con tutti, interamente.
Anna, Kate, i suoi genitori, l’avvocato a cui Anna si rivolge, il tutore che si occupa di lei, perfino il giudice li sentiamo vicini in questa storia in cui si cerca disperatamente il confine tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, tra l’etica e l’amore, tra la legge e la giustizia. Confine che non si trova. Risposte che mancano e continuano a mancare; un problema a cui non c’è soluzione, non c’è rimedio. Più leggi, meno riesci a immaginare il finale.  E l’autrice ci sconvolge, con un finale a sorpresa, assolutamente inaspettato. Perché non c’era altro modo di uscire dall’impasse. E lo chiudi con un groppo in gola.
Una storia coinvolgente, personaggi costruiti bene… ma questo libro ha, a mio avviso, un grosso limite: è scritto male. La narrazione è affidata, capitolo per capitolo, a ciascun personaggio in prima persona: si crea una confusione pazzesca, basta distrarsi un attimo e non si capisce chi stia parlando, anche perché la Picoult non adatta la sua prosa alla voce narrante.
Peccato…Non leggetelo se siete già tristi o troppo sensibili. 

Da questo libro è stato tratto un film omonimo, con Cameron Diaz e Alec Baldwin.

(Post pubblicato, in origine, qui)

venerdì 23 novembre 2012

Il corpo umano - Paolo Giordano.



La solitudine dei numeri primi l'ho letto due volte, pensando che fosse un libro "strano", e che non sapevo se mi era piaciuto. L'unica idea che mi si era formata nella testa era che... Paolo Giordano sapeva scrivere.


Adesso, arrivata all'ultima pagina de Il corpo umano aggiungo che Paolo Giordano è BRAVO, che il suo libro mi è piaciuto TANTO, che è strano come e più del primo, ma ha una stranezza più costruttiva.
Il corpo umano non racconta una vera e propria storia, nel senso.. non c'è una trama ordinata che inizia a pagina uno e finisce a pagina trecentotrentadue. é il risultato del reportage di Giordano in Afghanistan, nel 2010.
Tutti i soldati, tutti gli esseri umani - non dico uomini volutamente - sono inquadrati, radiografati in maniera perfetta e trasferiti sulle pagine. é bravo, a scavare nei personaggi.
Non si ferma, intimidito, davanti agli aspetti più squallidi e torbidi della realtà. Non ha paura a dirti che quando sei con un amico di cui hai un po' di soggezione e ti si rompe una bustina di maionese in mano, ti pulisci sull'orlo della sedia pur di non chiedergli un fazzoletto. Eppure, non ti annoia con descrizioni dettagliate e introspettive della psiche del personaggio, no. La illumina attraverso le sue sensazioni, i suoi gesti. La tua comprensione del personaggio va di pari passo col suo processo di maturazione: arrivate insieme, a capire perché si comporta così.
Ti va fa vedere impietoso il marcio nella società e nelle famiglie, senza giudicare. Perchè in fondo, è umano. 

Non ho letto grandi recensioni positive. Certo è un libro difficile, nel senso che...si fa fatica a seguire, fatica a andare avanti in questo viaggio nella coscienza che passa attraverso gli organi interni. Ma ne vale la pena, secondo me.

(post pubblicato, in origine, qui)

domenica 11 novembre 2012

Storia catastrofica di te e di me / e finalmente ti dirò addio

In settimana mi sono presa una pausa dalla lettura de L'idiota e mi sono dedicata a Storia catastrofica di te e di me di Jess Rothenberg, arrivato in Italia nel 2012. Dopo, è stato impossibile non leggere il (a mio avviso giustamente) più famoso E finalmente ti dirò addio di Lauren Olivier, edito nel 2010.
Ho scelto di parlare insieme di questi due libri perché sono molto simili: si tratta della storia, narrata in prima persona, di due adolescenti ormai morte: la Brie di Storia catastrofica  di infarto, dopo che il suo fidanzato l'ha lasciata, mentre Samantha di E finalmente ti dirò addio muore in un incidente d'auto.
Avevo letto prima quello della Rothenberg e l'avevo trovato gradevole, semplice e leggero ma gradevole. Una prosa scorrevole, qua e là ti scappa una lacrima, anche se non ho apprezzato fino in fondo la scelta della prima persona. Il personaggio di Brie si evolve dopo la morte, scoprendo che tante cose in vita le erano sfuggite, ma resta sostanzialmente una figura positiva, buona. L'ho trovato un libro un po' anni '90, forse troppo: Brie cita chewingum, giochi e film, come Harry ti presento Sally e Ragione e sentimento che... se davvero fosse morta a sedici anni nel 2010 non conoscerebbe!
Sul finale le cose si complicano un po' troppo per i miei gusti, e il libro vira verso un paranormal un po' troppo spinto. Ma rimane una buona lettura da spiaggia o da treno. Anzi, lo sarebbe rimasto, se dopo non avessi letto E finalmente ti dirò addio. Perchè i due libri sono decisamente TROPPO SIMILI, mi dispiace! troppi elementi che ritornano, anche dettagli, oltre a un certo modo di trattare il tema, certi stilemi... va bene ispirarsi, ma a mio avviso così è eccessivo.
Samantha non va nell'aldilà, come Brie; o meglio, il suo aldilà consiste nel rivivere sette volte il giorno della propria morte, cercando prima di salvare se stessa, poi capendo che ciò che deve fare davvero è salvare un'altra coetanea dal suicidio. La prosa diventa così più complessa, angosciante, a tratti claustrofobica... stimolante!
Ma il bello di questo libro, è che... Samantha è odiosa. Una ragazzina antipatica, viziata. Fa parte di un gruppo di bulle, che torturano una compagna per un motivo che si scopre davvero ingiusto, falso, squallido, che Sam nemmeno conosce. Ho sentito un fortissimo eco dello splendido Carrie di Stephen King, e scusate se è poco. E allora sì che Samantha, anche dopo morta, si evolve. Che capisce che non è tutto oro ciò che luccica, che le persone di cui si circonda non sono così limpide come credeva, che lei stessa sta inseguendo qualcosa che non desidera veramente, per un motivo troppo futile. Che capisce che non è vero che nella vita c'è chi ride e chi viene deriso, e l'importante è essere dalla parte di chi ride. E finalmente ti dirò addio è un libro più complesso, che ci porta dritti in un mondo che purtroppo esiste. é un libro che racconta la storia di chi ride, facendoci vedere come in realtà si stia autoingannando, senza scendere in falsi buonismi. Un difetto di questo libro è forse la... mancanza di angoscia di Sam: sentiamo poco della sua ansia, del suo dolore per essere morta, che invece in Brie sono fortissimi.

Consigliati... quello della Olivier sì. L'altro un po' meno, ma solo dopo aver letto E finalmente ti dirò addio. Preso da solo, è una buona lettura.

(Post pubblicato, in origine, qui)

sabato 27 ottobre 2012

La ragazza con l'orecchino di perla

Se vi piace quest'immagine, date un'occhiata qui. L'artista si fa chiamare Limpfish.

Ho letto La ragazza con l'orecchino di perla di Tracy Chevalier un po' in ritardo: il romanzo è uscito infatti nel 1999.

L'ho letto anche un po' per caso: sono rimasta senza Kindle per qualche giorno, e un'amica me l'ha prestato, per placare l'angoscia che mi attanaglia quando rimango senza un libro fra le mani. L'ho letto in tempi brevissimi, un viaggio in treno e una serata a casa. Annoiata all'inizio, coinvolta a metà, annoiata per poi tornare perplessa.

Non si può dire che mi sia piaciuto, ma nemmeno il contrario. Uno di quei romanzi che non capisci se stai apprezzando o no. Un libro che si lascia leggere, che insegna qualcosa a chi di arte non ne sa e stupisce chi la conosce; ma che dal punto di vista emotivo lascia davvero molto poco, a parer mio.

L'autrice è abilissima nelle descrizioni: tratteggia la cittadina di Delft con grande precisione e altrettanta vivacità, dipinge - è proprio il caso di dirlo - la vita di Griet e degli altri membri della famiglia di Vermeer con impietosa e allo stesso tempo delicata accuratezza.
Non mi sembra scorretto definire ekphrasis le descrizioni delle opere del grande pittore: La lattaia, il concerto interrotto, Donna con brocca d'acqua, Donna che legge una lettera, Concerto a tre... L'autrice non specifica mai il titolo dei dipinti che va descrivendo: se non li conoscete, tenete accanto al libro sul comodino una piccola monografia di Vermeer. Vi aiuterà ulteriormente a entrare nel mondo disegnato dalla Chevalier, e vi stupirete della facilità con cui riconoscete i quadri.
Proprio per questa sua abilità nel tratteggiare il mondo di un artista, le tecniche di lavorazione dei colori, l'atelier, mi ha un po' deluso il modo sbrigativo in cui l'autrice tratta il problema della camera oscura, uno dei più grandi misteri della pittura di Vermeer.

Ma.. la storia? La storia c'è, ma è sullo sfondo. é un quadro ribaltato, questo. Un quadro in cui i personaggi agiscono in ultimo piano. Colpisce la figura di Griet, la sua forza e la sua determinazione, la sua ammirazione - attrazione per il padrone, che però non scalfisce mai il suo desiderio di non tradire se stessa e i suoi ideali. Una sensualità sottile e repressa, e per questo forte e dirompente. Però mi sembra che quello di Griet sia l'unico personaggio degno di esser definito tale: gli altri sono appena tratteggiati, abbozzati, non finiti, non perfetti. Manca loro... l'orecchino di perla.

vi lascio il trailer del film: conto di vederlo a breve.

(post pubblicato, in origine, qui)