venerdì 30 novembre 2012
Il tempo tagliato–Silvia Longo
Ho letto questo libro due volte, nel giro di una settimana, dopo averne letto la presentazione sul blog di HP. Due volte perché… è un libro da leggere, da assaporare lentamente. La storia raccontata è semplice: non scontata e non banale, ma semplice. Il punto di forza di questo libro è un altro: è il modo in cui è scritto, la purezza della sua prosa, la forza evocativa di certe immagini. Non credo che riuscirò a costruire una recensione obiettiva di questo romanzo: mi ha rapita troppo, è a tutti gli effetti il più bello letto nel 2012.
“Mi sono sempre adeguata”
Questo è il punto di partenza della storia di Viola, la frase che ieri sera ho evidenziato sul Kindle aggiungendo una nota.. “parti da qui”. Eh sì, l’ho riletto sottolineando, annotando. Potrei scrivere pagine e pagine, mi trattengo, faccio la brava.
Viola si è sempre adeguata, è sempre rimasta un passo dietro al marito ricco e famoso. Una forma di amore, la sua: fare in modo che nessuno, né lui, né la figlia, soffrano: solo lei può soffrire, soffocata nella morsa di un’esistenza lussuosa, troppo lussuosa.
… “Quante frasi garbate da costruire, quante arterie flessuose fanno di noi persone rispettabili? E come splendere quando tutto intorno è opaco?”
Ecco, questo è la storia di Viola. Stare al passo, occuparsi di tutto e di tutti, soffocare il suo dolore, il suo sentirsi incompresa. Le sue opinioni, i suoi gusti musicali. Era sempre il marito – direttore d’orchestra – a scegliere la musica: era lui l’esperto, perché contraddirlo? Mi sono identificata facilmente, in Viola. Quel senso del dovere schiacciante, quel senso onnipresente di inadeguatezza, di insufficienza. Sentirsi in colpa per tutto, anche per non essere riuscita ad amare fino in fondo il marito, e una gioia segreta per essere riuscita a fingere per anni. Lei si sente in colpa “per tutto. Se si rompe un bicchiere, se dormo troppo (…) Se il treno che aspettiamo è in ritardo (…) Se la lavastoviglie lascia i bicchieri opachi, se in quella chiesa non c’è una buona acustica. Se il parrucchiere mi sbaglia la piega, se mi ammalo, se invecchio.” In colpa per non essere stata accanto al marito quell’ultima sera, in colpa per aver desiderato una vita senza di lui.
Ti identifichi anche con la figlia di Viola, Vicky. Senti il suo dolore sotto la pelle. Senti davvero quello che ha provato a preparare le valigie, prendere quel treno per correre a casa, dopo che le era stato detto che il suo papà non c’era più. Me la immagino mentre guarda correre i binari dal finestrino, mentre sa che indietro non si può tornare più, che non può cambiare niente…Anche se c’è il suo ragazzo accanto a lei, sperimenta per la prima volta la solitudine, il bozzolo di silenzio in cui ti chiude quel dolore sordo, ché neanche piangere ti salva.
E Mauro, l’uomo che “salva” Viola? Cresciuto con una madre bipolare, una famiglia che ha scelto di abbandonare… dolce e premuroso, riesce a far tirar fuori a Viola una confessione che le spalanca le porte di un’altra vita. E personalmente sono grata all’autrice per quel bacio evitato, per lasciarci scegliere da soli come continua questa storia, per aver scritto che “Ciò che mi appartiene si trova qui, e succede ora”.
é un libro da leggere davvero non per la storia che racconta ma per COME la racconta. Quest’autrice è davvero una rivelazione, e questo libro è perfetto. Perfetto nel descrivere, nel farci percepire. La crisi isterica di Viola sotto la pioggia davanti all’autogrill: da donna, la senti nel cuore e nei nervi. Il dolore di lei nel trovarsi nella casa vuota. “La morte è viva: la mia mente si ostina su questo ossimoro. Leggo la morte in un volto pallido, la sorprendo nel vuoto di un paio di pantaloni troppo larghi sul dietro, la ascolto nel canto di certi uccelli che non passeranno l’inverno”
Il mio passaggio preferito… Viola e Mauro all’autogrill, col temporale fuori e le previsioni meteo alla televisione. E intanto Viola immagina…
“La gente si chiude in casa a doppia mandata, infila i vestiti bagnati nella lavatrice, si asciuga i capelli e indossa il cardigan preferito, quello morbido con le maniche sformate che arrivano a coprire le dita”.
(post pubblicato, in origine, qui)
domenica 25 novembre 2012
La custode di mia sorella - Jodi Picoult
TRAMA:
Anna non è malata ma è come se lo fosse. A tredici anni è già stata sottoposta a numerosi interventi chirurgici, trasfusioni e iniezioni in modo che la sorella maggiore Kate possa combattere la leucemia che l’ha colpita in tenera età. Anna è stata concepita con le caratteristiche genetiche che la rendono idonea a essere donatore di midollo per la sorella, ruolo che non ha mai messo discussione ma che ora le diventa, di colpo, insostenibile. Perché nessuno le chiede mai il suo parere? Perché si dà per scontato che lei sia disponibile? Anna prende una decisione per molti impensabile e che sconvolgerà la vita di tutti i suoi cari: fa causa alla sua famiglia.
Un tema forte, quello trattato da Jodi Picoult in questo romanzo. Una storia sconvolgente, in cui pagina dopo pagina ci chiediamo che parte prendere, cosa pensare, cosa dovremmo pensare e non troviamo mai una risposta. Una storia in cui tutti personaggi sono delineati in maniera perfetta, minuziosa. Li conosciamo tutti, li capiamo tutti. Siamo più d’accordo con qualcuno e meno con qualcun altro, ma siamo empatici con tutti, interamente.
Anna, Kate, i suoi genitori, l’avvocato a cui Anna si rivolge, il tutore che si occupa di lei, perfino il giudice li sentiamo vicini in questa storia in cui si cerca disperatamente il confine tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, tra l’etica e l’amore, tra la legge e la giustizia. Confine che non si trova. Risposte che mancano e continuano a mancare; un problema a cui non c’è soluzione, non c’è rimedio. Più leggi, meno riesci a immaginare il finale. E l’autrice ci sconvolge, con un finale a sorpresa, assolutamente inaspettato. Perché non c’era altro modo di uscire dall’impasse. E lo chiudi con un groppo in gola.
Una storia coinvolgente, personaggi costruiti bene… ma questo libro ha, a mio avviso, un grosso limite: è scritto male. La narrazione è affidata, capitolo per capitolo, a ciascun personaggio in prima persona: si crea una confusione pazzesca, basta distrarsi un attimo e non si capisce chi stia parlando, anche perché la Picoult non adatta la sua prosa alla voce narrante.
Peccato…Non leggetelo se siete già tristi o troppo sensibili.
Da questo libro è stato tratto un film omonimo, con Cameron Diaz e Alec Baldwin.
(Post pubblicato, in origine, qui)
Un tema forte, quello trattato da Jodi Picoult in questo romanzo. Una storia sconvolgente, in cui pagina dopo pagina ci chiediamo che parte prendere, cosa pensare, cosa dovremmo pensare e non troviamo mai una risposta. Una storia in cui tutti personaggi sono delineati in maniera perfetta, minuziosa. Li conosciamo tutti, li capiamo tutti. Siamo più d’accordo con qualcuno e meno con qualcun altro, ma siamo empatici con tutti, interamente.
Anna, Kate, i suoi genitori, l’avvocato a cui Anna si rivolge, il tutore che si occupa di lei, perfino il giudice li sentiamo vicini in questa storia in cui si cerca disperatamente il confine tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, tra l’etica e l’amore, tra la legge e la giustizia. Confine che non si trova. Risposte che mancano e continuano a mancare; un problema a cui non c’è soluzione, non c’è rimedio. Più leggi, meno riesci a immaginare il finale. E l’autrice ci sconvolge, con un finale a sorpresa, assolutamente inaspettato. Perché non c’era altro modo di uscire dall’impasse. E lo chiudi con un groppo in gola.
Una storia coinvolgente, personaggi costruiti bene… ma questo libro ha, a mio avviso, un grosso limite: è scritto male. La narrazione è affidata, capitolo per capitolo, a ciascun personaggio in prima persona: si crea una confusione pazzesca, basta distrarsi un attimo e non si capisce chi stia parlando, anche perché la Picoult non adatta la sua prosa alla voce narrante.
Peccato…Non leggetelo se siete già tristi o troppo sensibili.
Da questo libro è stato tratto un film omonimo, con Cameron Diaz e Alec Baldwin.
(Post pubblicato, in origine, qui)
venerdì 23 novembre 2012
Il corpo umano - Paolo Giordano.
La solitudine dei numeri primi l'ho letto due volte, pensando che fosse un libro "strano", e che non sapevo se mi era piaciuto. L'unica idea che mi si era formata nella testa era che... Paolo Giordano sapeva scrivere.
Adesso, arrivata all'ultima pagina de Il corpo umano aggiungo che Paolo Giordano è BRAVO, che il suo libro mi è piaciuto TANTO, che è strano come e più del primo, ma ha una stranezza più costruttiva.
Il corpo umano non racconta una vera e propria storia, nel senso.. non c'è una trama ordinata che inizia a pagina uno e finisce a pagina trecentotrentadue. é il risultato del reportage di Giordano in Afghanistan, nel 2010.
Tutti i soldati, tutti gli esseri umani - non dico uomini volutamente - sono inquadrati, radiografati in maniera perfetta e trasferiti sulle pagine. é bravo, a scavare nei personaggi.
Non si ferma, intimidito, davanti agli aspetti più squallidi e torbidi della realtà. Non ha paura a dirti che quando sei con un amico di cui hai un po' di soggezione e ti si rompe una bustina di maionese in mano, ti pulisci sull'orlo della sedia pur di non chiedergli un fazzoletto. Eppure, non ti annoia con descrizioni dettagliate e introspettive della psiche del personaggio, no. La illumina attraverso le sue sensazioni, i suoi gesti. La tua comprensione del personaggio va di pari passo col suo processo di maturazione: arrivate insieme, a capire perché si comporta così.
Ti va fa vedere impietoso il marcio nella società e nelle famiglie, senza giudicare. Perchè in fondo, è umano.
Non ho letto grandi recensioni positive. Certo è un libro difficile, nel senso che...si fa fatica a seguire, fatica a andare avanti in questo viaggio nella coscienza che passa attraverso gli organi interni. Ma ne vale la pena, secondo me.
(post pubblicato, in origine, qui)
domenica 11 novembre 2012
Storia catastrofica di te e di me / e finalmente ti dirò addio
In settimana mi sono presa una pausa dalla lettura de L'idiota e mi sono dedicata a Storia catastrofica di te e di me di Jess Rothenberg, arrivato in Italia nel 2012. Dopo, è stato impossibile non leggere il (a mio avviso giustamente) più famoso E finalmente ti dirò addio di Lauren Olivier, edito nel 2010.
Ho scelto di parlare insieme di questi due libri perché sono molto simili: si tratta della storia, narrata in prima persona, di due adolescenti ormai morte: la Brie di Storia catastrofica di infarto, dopo che il suo fidanzato l'ha lasciata, mentre Samantha di E finalmente ti dirò addio muore in un incidente d'auto.
Avevo letto prima quello della Rothenberg e l'avevo trovato gradevole, semplice e leggero ma gradevole. Una prosa scorrevole, qua e là ti scappa una lacrima, anche se non ho apprezzato fino in fondo la scelta della prima persona. Il personaggio di Brie si evolve dopo la morte, scoprendo che tante cose in vita le erano sfuggite, ma resta sostanzialmente una figura positiva, buona. L'ho trovato un libro un po' anni '90, forse troppo: Brie cita chewingum, giochi e film, come Harry ti presento Sally e Ragione e sentimento che... se davvero fosse morta a sedici anni nel 2010 non conoscerebbe!
Sul finale le cose si complicano un po' troppo per i miei gusti, e il libro vira verso un paranormal un po' troppo spinto. Ma rimane una buona lettura da spiaggia o da treno. Anzi, lo sarebbe rimasto, se dopo non avessi letto E finalmente ti dirò addio. Perchè i due libri sono decisamente TROPPO SIMILI, mi dispiace! troppi elementi che ritornano, anche dettagli, oltre a un certo modo di trattare il tema, certi stilemi... va bene ispirarsi, ma a mio avviso così è eccessivo.
Samantha non va nell'aldilà, come Brie; o meglio, il suo aldilà consiste nel rivivere sette volte il giorno della propria morte, cercando prima di salvare se stessa, poi capendo che ciò che deve fare davvero è salvare un'altra coetanea dal suicidio. La prosa diventa così più complessa, angosciante, a tratti claustrofobica... stimolante!
Ma il bello di questo libro, è che... Samantha è odiosa. Una ragazzina antipatica, viziata. Fa parte di un gruppo di bulle, che torturano una compagna per un motivo che si scopre davvero ingiusto, falso, squallido, che Sam nemmeno conosce. Ho sentito un fortissimo eco dello splendido Carrie di Stephen King, e scusate se è poco. E allora sì che Samantha, anche dopo morta, si evolve. Che capisce che non è tutto oro ciò che luccica, che le persone di cui si circonda non sono così limpide come credeva, che lei stessa sta inseguendo qualcosa che non desidera veramente, per un motivo troppo futile. Che capisce che non è vero che nella vita c'è chi ride e chi viene deriso, e l'importante è essere dalla parte di chi ride. E finalmente ti dirò addio è un libro più complesso, che ci porta dritti in un mondo che purtroppo esiste. é un libro che racconta la storia di chi ride, facendoci vedere come in realtà si stia autoingannando, senza scendere in falsi buonismi. Un difetto di questo libro è forse la... mancanza di angoscia di Sam: sentiamo poco della sua ansia, del suo dolore per essere morta, che invece in Brie sono fortissimi.
Consigliati... quello della Olivier sì. L'altro un po' meno, ma solo dopo aver letto E finalmente ti dirò addio. Preso da solo, è una buona lettura.
(Post pubblicato, in origine, qui)

Avevo letto prima quello della Rothenberg e l'avevo trovato gradevole, semplice e leggero ma gradevole. Una prosa scorrevole, qua e là ti scappa una lacrima, anche se non ho apprezzato fino in fondo la scelta della prima persona. Il personaggio di Brie si evolve dopo la morte, scoprendo che tante cose in vita le erano sfuggite, ma resta sostanzialmente una figura positiva, buona. L'ho trovato un libro un po' anni '90, forse troppo: Brie cita chewingum, giochi e film, come Harry ti presento Sally e Ragione e sentimento che... se davvero fosse morta a sedici anni nel 2010 non conoscerebbe!
Sul finale le cose si complicano un po' troppo per i miei gusti, e il libro vira verso un paranormal un po' troppo spinto. Ma rimane una buona lettura da spiaggia o da treno. Anzi, lo sarebbe rimasto, se dopo non avessi letto E finalmente ti dirò addio. Perchè i due libri sono decisamente TROPPO SIMILI, mi dispiace! troppi elementi che ritornano, anche dettagli, oltre a un certo modo di trattare il tema, certi stilemi... va bene ispirarsi, ma a mio avviso così è eccessivo.
Samantha non va nell'aldilà, come Brie; o meglio, il suo aldilà consiste nel rivivere sette volte il giorno della propria morte, cercando prima di salvare se stessa, poi capendo che ciò che deve fare davvero è salvare un'altra coetanea dal suicidio. La prosa diventa così più complessa, angosciante, a tratti claustrofobica... stimolante!
Ma il bello di questo libro, è che... Samantha è odiosa. Una ragazzina antipatica, viziata. Fa parte di un gruppo di bulle, che torturano una compagna per un motivo che si scopre davvero ingiusto, falso, squallido, che Sam nemmeno conosce. Ho sentito un fortissimo eco dello splendido Carrie di Stephen King, e scusate se è poco. E allora sì che Samantha, anche dopo morta, si evolve. Che capisce che non è tutto oro ciò che luccica, che le persone di cui si circonda non sono così limpide come credeva, che lei stessa sta inseguendo qualcosa che non desidera veramente, per un motivo troppo futile. Che capisce che non è vero che nella vita c'è chi ride e chi viene deriso, e l'importante è essere dalla parte di chi ride. E finalmente ti dirò addio è un libro più complesso, che ci porta dritti in un mondo che purtroppo esiste. é un libro che racconta la storia di chi ride, facendoci vedere come in realtà si stia autoingannando, senza scendere in falsi buonismi. Un difetto di questo libro è forse la... mancanza di angoscia di Sam: sentiamo poco della sua ansia, del suo dolore per essere morta, che invece in Brie sono fortissimi.
Consigliati... quello della Olivier sì. L'altro un po' meno, ma solo dopo aver letto E finalmente ti dirò addio. Preso da solo, è una buona lettura.
(Post pubblicato, in origine, qui)
sabato 27 ottobre 2012
La ragazza con l'orecchino di perla
Se vi piace quest'immagine, date un'occhiata qui. L'artista si fa chiamare Limpfish.
Ho letto La ragazza con l'orecchino di perla di Tracy Chevalier un po' in ritardo: il romanzo è uscito infatti nel 1999.
L'ho letto anche un po' per caso: sono rimasta senza Kindle per qualche giorno, e un'amica me l'ha prestato, per placare l'angoscia che mi attanaglia quando rimango senza un libro fra le mani. L'ho letto in tempi brevissimi, un viaggio in treno e una serata a casa. Annoiata all'inizio, coinvolta a metà, annoiata per poi tornare perplessa.
Non si può dire che mi sia piaciuto, ma nemmeno il contrario. Uno di quei romanzi che non capisci se stai apprezzando o no. Un libro che si lascia leggere, che insegna qualcosa a chi di arte non ne sa e stupisce chi la conosce; ma che dal punto di vista emotivo lascia davvero molto poco, a parer mio.
L'autrice è abilissima nelle descrizioni: tratteggia la cittadina di Delft con grande precisione e altrettanta vivacità, dipinge - è proprio il caso di dirlo - la vita di Griet e degli altri membri della famiglia di Vermeer con impietosa e allo stesso tempo delicata accuratezza.
Non mi sembra scorretto definire ekphrasis le descrizioni delle opere del grande pittore: La lattaia, il concerto interrotto, Donna con brocca d'acqua, Donna che legge una lettera, Concerto a tre... L'autrice non specifica mai il titolo dei dipinti che va descrivendo: se non li conoscete, tenete accanto al libro sul comodino una piccola monografia di Vermeer. Vi aiuterà ulteriormente a entrare nel mondo disegnato dalla Chevalier, e vi stupirete della facilità con cui riconoscete i quadri.
Proprio per questa sua abilità nel tratteggiare il mondo di un artista, le tecniche di lavorazione dei colori, l'atelier, mi ha un po' deluso il modo sbrigativo in cui l'autrice tratta il problema della camera oscura, uno dei più grandi misteri della pittura di Vermeer.
Ma.. la storia? La storia c'è, ma è sullo sfondo. é un quadro ribaltato, questo. Un quadro in cui i personaggi agiscono in ultimo piano. Colpisce la figura di Griet, la sua forza e la sua determinazione, la sua ammirazione - attrazione per il padrone, che però non scalfisce mai il suo desiderio di non tradire se stessa e i suoi ideali. Una sensualità sottile e repressa, e per questo forte e dirompente. Però mi sembra che quello di Griet sia l'unico personaggio degno di esser definito tale: gli altri sono appena tratteggiati, abbozzati, non finiti, non perfetti. Manca loro... l'orecchino di perla.
vi lascio il trailer del film: conto di vederlo a breve.
(post pubblicato, in origine, qui)
Ho letto La ragazza con l'orecchino di perla di Tracy Chevalier un po' in ritardo: il romanzo è uscito infatti nel 1999.
L'ho letto anche un po' per caso: sono rimasta senza Kindle per qualche giorno, e un'amica me l'ha prestato, per placare l'angoscia che mi attanaglia quando rimango senza un libro fra le mani. L'ho letto in tempi brevissimi, un viaggio in treno e una serata a casa. Annoiata all'inizio, coinvolta a metà, annoiata per poi tornare perplessa.
Non si può dire che mi sia piaciuto, ma nemmeno il contrario. Uno di quei romanzi che non capisci se stai apprezzando o no. Un libro che si lascia leggere, che insegna qualcosa a chi di arte non ne sa e stupisce chi la conosce; ma che dal punto di vista emotivo lascia davvero molto poco, a parer mio.
L'autrice è abilissima nelle descrizioni: tratteggia la cittadina di Delft con grande precisione e altrettanta vivacità, dipinge - è proprio il caso di dirlo - la vita di Griet e degli altri membri della famiglia di Vermeer con impietosa e allo stesso tempo delicata accuratezza.
Non mi sembra scorretto definire ekphrasis le descrizioni delle opere del grande pittore: La lattaia, il concerto interrotto, Donna con brocca d'acqua, Donna che legge una lettera, Concerto a tre... L'autrice non specifica mai il titolo dei dipinti che va descrivendo: se non li conoscete, tenete accanto al libro sul comodino una piccola monografia di Vermeer. Vi aiuterà ulteriormente a entrare nel mondo disegnato dalla Chevalier, e vi stupirete della facilità con cui riconoscete i quadri.
Proprio per questa sua abilità nel tratteggiare il mondo di un artista, le tecniche di lavorazione dei colori, l'atelier, mi ha un po' deluso il modo sbrigativo in cui l'autrice tratta il problema della camera oscura, uno dei più grandi misteri della pittura di Vermeer.
Ma.. la storia? La storia c'è, ma è sullo sfondo. é un quadro ribaltato, questo. Un quadro in cui i personaggi agiscono in ultimo piano. Colpisce la figura di Griet, la sua forza e la sua determinazione, la sua ammirazione - attrazione per il padrone, che però non scalfisce mai il suo desiderio di non tradire se stessa e i suoi ideali. Una sensualità sottile e repressa, e per questo forte e dirompente. Però mi sembra che quello di Griet sia l'unico personaggio degno di esser definito tale: gli altri sono appena tratteggiati, abbozzati, non finiti, non perfetti. Manca loro... l'orecchino di perla.
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venerdì 5 ottobre 2012
L'armadio dei vestiti dimenticati
Anche L'armadio dei vestiti dimenticati è una storia di donne, come Finché le stelle saranno in cielo, ma a differenza di quest'ultimo è tutto fuorchè un libro semplice. La prosa di Riikka Pulkkinen è tipicamente nordica, non saprei descriverla diversamente: ha un ritmo tutto particolare e riconoscibilissimo per chi ha già letto qualcosa di scrittori scandinavi: a me al momento viene in mente solo Le figlie di Hanna, di Marianne Fredriksson. Le vicende che si intrecciano in questa storia sono almento tre: il presente è occupato dalla storia di Elsa, psicologa di successo gravemente malata che affronta, assistita dalla figlia, le nipoti e il marito, le ultime settimane della sua vita; ed è proprio l'incombere della morte a riportare a galla il ricordo della relazione del marito Martti con la baby sitter della figlia Ella, Eeva. Un ruolo centrale è occupato dalla figura della giovane nipote Anna, che ha un rapporto speciale con il nonno - pittore e intellettuale - e pare ossessionata dalla storia di Eeva, con la quale ha qualcosa in comune, ma non capiamo mai quanto e fino a che punto.
I capitoli raccontano, con ritmi alternati irregolari, la storia presente di Martti, Elsa, Anna e Ella e quella passata di Eeva, narrata in prima persona da Eeva stessa. Si crea quindi una sorta di gioco di specchi e la vicenda di Eeva, che vive gli anni centrali della sua giovinezza intorno al 1968, sembra confondersi con quella di Anna, che lavora a una tesi sul femminismo e ha sofferto di depressione a seguito di una relazione finita male.
é un libro che lascia attoniti, pieni di domande. Un libro in cui è facile trovare qualcosa di sè, un qualcosa di già vissuto, una sensazione di dejà vu: leggendolo ci si sente immersi in un turbinio di sensazioni e emozioni che portano a identificarsi ora con Eeva ora con Anna, più raramente con Elsa e Ella: il tutto avviene spontaneamente, attraverso i dialoghi e le descrizioni che non sono mai noiose o eccessivamente introspettive.
Ci si ritrova trasportati in questo dramma familiare che non ha niente di straordinario, anzi: è un dramma talmente normale che avvertiamo sotto la pelle le difficoltà a comunicare, il dolore, la malinconia di ciascuno dei personaggi. Verso la fine, abbiamo una grande simpatia per Eeva e Anna, e un po' meno per Elsa; riesce difficile anche provare compassione per lei: seppur malata, ha tenuto per tutta la vita accanto a sè marito e figlia, senza esser loro vicino fisicamente, e anche alla fine li avrà tutti per sè, lasciando al "dopo" il compito di guarire le ferite incurabili.
(Post pubblicato, in origine, qui)
I capitoli raccontano, con ritmi alternati irregolari, la storia presente di Martti, Elsa, Anna e Ella e quella passata di Eeva, narrata in prima persona da Eeva stessa. Si crea quindi una sorta di gioco di specchi e la vicenda di Eeva, che vive gli anni centrali della sua giovinezza intorno al 1968, sembra confondersi con quella di Anna, che lavora a una tesi sul femminismo e ha sofferto di depressione a seguito di una relazione finita male.
é un libro che lascia attoniti, pieni di domande. Un libro in cui è facile trovare qualcosa di sè, un qualcosa di già vissuto, una sensazione di dejà vu: leggendolo ci si sente immersi in un turbinio di sensazioni e emozioni che portano a identificarsi ora con Eeva ora con Anna, più raramente con Elsa e Ella: il tutto avviene spontaneamente, attraverso i dialoghi e le descrizioni che non sono mai noiose o eccessivamente introspettive.
Ci si ritrova trasportati in questo dramma familiare che non ha niente di straordinario, anzi: è un dramma talmente normale che avvertiamo sotto la pelle le difficoltà a comunicare, il dolore, la malinconia di ciascuno dei personaggi. Verso la fine, abbiamo una grande simpatia per Eeva e Anna, e un po' meno per Elsa; riesce difficile anche provare compassione per lei: seppur malata, ha tenuto per tutta la vita accanto a sè marito e figlia, senza esser loro vicino fisicamente, e anche alla fine li avrà tutti per sè, lasciando al "dopo" il compito di guarire le ferite incurabili.
(Post pubblicato, in origine, qui)
mercoledì 3 ottobre 2012
Finché le stelle saranno in cielo

La storia è complessa, la trama è ben congegnata e mai scontata, i temi sono davvero molteplici: Hope è una giovane divorziata che gestisce, con la figlia dodicenne, la pasticceria che era stata della madre e della nonna e si ritrova a dover ripercorrere il passato della nonna che, malata di Alzheimer, rivela di essere ebrea, e di esser fuggita da Parigi giovanissima abbandonando la famiglia. Ad aiutare Hope nella ricerca interviene il giovane Gavin, tuttofare che si appassiona a lei, alla sua storia e alla bambina. Il viaggio di Hope si svolge da Cape Cod a una Parigi insolitamente ben descritta - sembra davvero di passeggiare per le vie del Marais e di attraversare Place des Vosges! - per concludersi a New York, all'ombra della Statua della Libertà. Un viaggio alla scoperta delle origini di Mamie, che assumeranno anche per Hope un significato particolare, e finiranno per rafforzare la sua decisione di salvare la pasticceria della sua famiglia, aiutandola a comprendere quanto abbiano significato i dolci nella storia della sua Mamie.

I temi quindi sono tanti: il principale forse è l'Olocausto, trattato con toni tenui ma non per questo meno drammatici; poi importantissimo il ruolo dei dolci, e qui forse la Harmel strizza un po' l'occhio - senza eguagliarlo - a Chocolat della Harris; un ruolo primario è rivestito dalla complessità dei rapporti tra donne all'interno di una stessa famiglia: le difficoltà di Hope con la figlia sono il riflesso di quelle che ha avuto lei con la madre. Poi c'è, ovviamente, l'amore: attraverso la storia della giovane Mamie e del suo (perduto ?) Jacob, Hope riprende fiducia in stessa, e ricomincia a credere nell'amore.
Il personaggio di Hope è forse la cosa meglio riuscita di tutto il libro: all'inizio lei ci appare come una donna frustrata, depressa a causa del divorzio, incapace di rapportarsi con la figlia adolescente e incline a considerarsi una fallita: spontaneo detestarla, e ancora più spontaneo chiedersi perché la Harmel abbia scelto di chiamarla Hope! Si tratta di un personaggio che si riscatta nel corso del suo viaggio, che piano piano - aiutata dalla sua famiglia, e dalla scoperta della vera storia di Mamie e del suo dolore - riesce ad affrontare la sua paura più grande, paura descritta in maniera fresca e spontanea dall'autrice, paura che tutti abbiamo conosciuto: la paura di soffrire, di aprirsi al prossimo, cui consegue il timore di non essere più in grado di amare.
consigliato: sì!
Nella foto, Place des Vosges a Parigi. Photo by.. la mia mamma!
(post pubblicato, in origine, qui)
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