Google+

domenica 18 gennaio 2015

"La morte del padre" - Karl Ove Knausgård

"Quando si sa troppo poco, è come se questo poco non esistesse, ma anche quando si sa troppo, è come se questo troppo non ci fosse. Scrivere significa portare alla luce l'esistente facendolo emergere dalle ombre di ciò che sappiamo. La scrittura è questo. Non quello che vi succede, non gli avvenimenti che vi si svolgono, ma lì, in se stessa. Lì, risiede il luogo e l'obiettivo dello scrivere. Ma come si arriva a questo lì? Era questa la domanda che mi ponevo mentre seduto su una panchina di quel quartiere di Stoccolma bevevo caffè e i muscoli si stavano rattrappendo dal freddo e il fumo della sigaretta si dissolveva in quell'enorme spazio fatto d'aria che mi sovrastava. Per molti anni avevo cercato di scrivere di mio padre, ma senza riuscirci, sicuramente perché tutto questo era troppo vicino alla mia vita e quindi non era facile costringerlo in un'altra forma, che invece costituisce il presupposto base della letteratura. È la sua unica legge: tutto deve piegarsi alla forma. Ecco perché gli scrittori che posseggono uno stile marcato scrivono spesso libri deboli. Ecco perché quegli autori che si occupano di argomenti e temi forti scrivono libri deboli. La potenza insita nel tema e nello stile deve essere spezzata affinché possa nascere la letteratura. È questa demolizione che viene definita 'scrivere'. Lo scrivere riguarda più il distruggere che il creare."
(da Ibs.it)






Ho iniziato a leggere La morte del padre fondamentalmente perché, per ragioni strettamente personali, quelli che chiamo "problemi paterni" mi interessano non poco.

Si tratta di un romanzo autobiografico dell'autore norvegese Karl Ove Knausgård ; il titolo originale è  Min Kamp. Il progetto si compone di sei volumi: attualmente in Italia i diritti sono stati acquistati da Feltrinelli, che ha presentato il primo tomo col titolo La morte del padre.
Karl Ove si racconta: in questo primo volume parla della sua infanzia, della sua adolescenza e del rapporto col padre, anaffettivo e alcolizzato.
La sua opera è stata accostata, credo soprattutto per le dimensioni, a quella di Proust: oltre alle dimensioni simili non c'è molto altro che li accomuni, anche se ho trovato interessante l'insistenza dell'autore sul tema della memoria che si intreccia a quello del tempo che passa.

L'autore scrive bene, indubbiamente. Racconta tutto con dovizia di particolari e con lucidità: ho apprezzato moltissimo le pagine dedicate alla sua attività di scrittore e alla letteratura, oltre a quelle in cui si concentra maggiormente col rapporto del padre.
Se è vero che, come dice il mio amico Gianluca, dare un nome all'inesprimibile è compito dei letterati e dei poeti, Karl Ove (mi vien proprio da chiamarlo per nome...) ci riesce particolarmente bene: in alcuni passaggi mi sono emozionata perché sentivo vivi dentro di me quei sentimenti ambivalenti che lui descrive, dei quali non ero mai riuscita a parlare apertamente.

Alcune pagine però mi hanno annoiata, ho faticato a collegarle non tanto col tema della storia quanto con quello che io vorrei che fosse il tema centrale, ossia il collegamento tra le sue nevrosi e il rapporto col padre. Insomma, come spesso accade anche in questo libro ho cercato ciò che mi interessava. 
Attendo il prossimo volume? Sì.

Nessun commento: