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martedì 31 dicembre 2013

La luce alla finestra–Lucinda Riley

TRAMA (da qlibri): Émilie de la Martinières ha sempre subito il giudizio di sua madre, regina indiscussa della scena mondana parigina. Ora ha trent'anni, ma la freddezza mascherata dal lusso e dagli agi con cui quella donna superficiale e distante l'ha cresciuta è un fardello ancora pesante da portare. L'improvvisa notizia della sua morte, tuttavia, risveglia in Emilie un groviglio di sentimenti contrastanti e dolorosi, soprattutto quando apprende di essere l'unica erede di un sontuoso castello nel Sud della Francia, un castello che nasconde le risposte a molti degli interrogativi che pendono sul suo passato: sarà un vecchio taccuino ritrovato tra quelle mura a metterla sulle tracce della misteriosa e bellissima zia Sophia, la cui tragica storia d’amore ai tempi della guerra ha segnato irrimediabilmente la sua famiglia. E perché all'improvviso continua a pensare a un uomo che ha appena conosciuto, proprio lei che si è sempre tenuta lontana dall'amore
Per il ciclo “non-toglietemi-il-mio-Kindle-e-il-mio-romanzetto-puccioso”, ecco l’ultima recensione del 2013: La luce alla finestra.
Per quanto riguarda i romanzi “leggeri” e di evasione, a tema amoroso ma non solo, Lucinda Riley è in assoluto la mia autrice contemporanea preferita. Non sbaglia un colpo. La struttura narrativa da lei delineata, con l’alternarsi tra passato e presente, coinvolge e cattura. Si fatica a staccarsi da ciascuno dei due piani temporali: arrivati al punto cruciale del presente, ricomincia a parlarti del passato, e viceversa, così che l’unica soluzione è leggere, leggere, leggere.
La vicenda del passato è ambientata negli anni della guerra, in quel sottobosco fatto di spie e di partigiani di cui abbiamo sempre l’impressione di sapere poco, e si muove tra Parigi e la campagna provenzale, dove finalmente la protagonista troverà la serenità che i suoi genitori non hanno potuto conoscere.
Lieto fine, quindi, come sempre in questi romanzi: ma non mancano le difficoltà, le battaglie, le perdite.
Il mio 2013 da lettrice si chiude così, alla fine di questo romanzo e a metà di La casa della gioia di Edith Wharton: proposito per l’anno nuovo è approfondire la figura di quest’autrice americana, e dedicarsi a qualche classico mai letto. Victor Hugo, e Proust.

(Post pubblicato, in origine, qui)

venerdì 13 dicembre 2013

Riscoprire le Piccole Donne

Complice un filmetto, trovato per caso su Sky e guardato da metà in poi, ho deciso, tra metà novembre e i primi di dicembre, di dedicarmi alla rilettura delle Piccole Donne, intendendo tutto il ciclo, comprensivo di Piccole donne, Piccole donne crescono, Piccoli Uomini, I ragazzi di Jo.
Ho cominciato così, un pomeriggio, per gioco. Leggendo Piccole donne sulla storica versione di mia mamma, e gli altri su Kindle, siccome ho scoperto, con orrore, che i miei occhi sopportano a fatica la visione dei piccoli caratteri delle mie meravigliose edizioni Giunti, in cui possiedo Piccole donne crescono e Piccoli uomini. Quanto a I ragazzi di Jo, non ne ho una versione in casa. Da bambina, probabilmente, avevo letto solo dei piccoli passaggi.

Ho ricominciato, casualmente, proprio nei giorni successivi allo scoppio dello scandalo riguardante le ragazzine dei licei romani che si prostituivano. Scherzando, ma non troppo, devo aver detto che ritenevo - parzialmente, s'intende - la scomparsa dell'usanza di leggere Piccole donne la causa della degenerazione dei costumi.
Ho quindi postato su Facebook, in un gruppo dedicato ai libri, la fatidica domanda: "Si usa ancora far leggere il ciclo delle Piccole donne?" e, con mia grande stupore, ho ottenuto parecchie risposte affermative e una sola nettamente negativa, di una persona che dichiarava che nei romanzi della Alcott le fanciulle vengono educate al solo scopo di accalappiare un uomo, e che quindi non li avrebbe mai proposti alle sue figlie. Questa signora, che non conosco, ha probabilmente letto con scarsa attenzione, e non volentieri, i romanzi; tuttavia è stata forse questa stessa obiezione a far sì che mi dedicassi alla lettura con più impegno e più attenzione rivolta verso i messaggi educativi e morali che i romanzi trasmettono.
La mia conclusione è che, sia Piccole donne sia Piccole donne crescono, sono romanzi modernissimi, capaci di regalarci insegnamenti sull'importanza di coltivare il senso del dovere, di combattere i propri difetti, l'impulsività e, soprattutto, di innamorarsi con sincerità e di essere in grado di dividere, col proprio compagno, gioie e dolori della vita matrimoniale. Anche su quest'ultimo punto, la Alcott è modernissima: Meg e John si dividono i compiti, litigano, e riescono a ritrovarsi: nessuna delle tre è educata per "accalappiare" e compiacere il proprio uomo, anzi. Tutte sono esortate a coltivare la propria personalità e i propri interessi, e finiscono per avvicinarsi a uomini di classi sociali diverse, con i quali condividono un progetto importante.
Secondo me, è proprio perché per la Alcott è tanto importante lo sviluppo della personalità, il sapersi, nel caso, ribellare alle convenienze sociali e il saper vivere fuori dalla famiglia pur senza perdere i contatti con essa, che l'unica che finisce per soccombere, nella battaglia per l'autoaffermazione, è Beth, che - per quanto questo possa causarci tante lacrime - non può che morire.

Per quanto riguarda Piccoli uomini - che da bambina avevo amato moltissimo - e I ragazzi di Jo, sono rimasta parzialmente delusa.
Nel primo ritroviamo, sicuramente, una memoria di giochi infantili che si è persa per sempre, giochi che sarebbe meraviglioso poter recuperare, perché stimolavano la fantasia e l'autonomia, caratteristiche che ritroviamo difficilmente nei bambini di oggi. Manca però una trama, assente anche in I ragazzi di Jo: si susseguono tutta una serie di episodi, e il personaggio principale è sicuramente Dan che a differenza di Beth - che non si lascia andare all'azione - non riesce a trovare pace in nessuna attività, e finisce per trovarla anche lui, precocemente, nel sonno eterno.
Ma quello che manca, in questi ultimi romanzi, sono le tre sorelle che, da adulte, pur essendo rimaste straordinariamente "loro", non risvegliano lo stesso affetto incondizionato. 

In conclusione, voglio sottolineare come sia importante non solo far leggere, almeno i primi due romanzi, ma soprattutto spiegarli: insegnare alle bambine a non saltare i passaggi moraleggianti, e a spiegare come anche i continui riferimenti alla Provvidenza (tipici della cultura americana dell'epoca) siano riconducibili all'interno di un sistema di valori che non moriranno devono morire mai.


mercoledì 13 novembre 2013

Il bordo vertiginoso delle cose

TRAMA (da qlibri): Mentre sorseggia il cappuccino come ogni mattina, seduto in un bar nel centro di Firenze, Enrico Vallesi legge una notizia sul giornale: in un conflitto a fuoco con i carabinieri, è rimasto ucciso un rapinatore, da poco uscito di galera. Il nome della vittima riporta Enrico alla fine degli anni Settanta, al primo giorno di liceo, quando in una classe di quindicenni aveva fatto la sua comparsa Salvatore. più volte bocciato, turbolento, il compagno che gli aveva insegnato come difendersi dalla violenza della strada e superare a testa alta quel territorio straniero che è l'adolescenza. Ai ricordi di Enrico si alterna il racconto del suo ritorno nella città dalla quale era partito, quando non aveva ancora conosciuto gioie e delusioni del matrimonio e del suo mestiere di scrittore. Un ritorno a casa in cerca di risposte ai propri tormenti, per scoprire quello che tanti anni prima si era lasciato alle spalle, ma anche per capire cosa è diventata nel frattempo la sua vita.
Tutti presi a parlare di chi c’è in testa alla classifica dei libri più venduti – io per ora sull’argomento taccio, ma sono quasi tentata di leggerlo, il primo in classifica, perché ho la poco diffusa abitudine di voler conoscere prima di (s)parlare – non ci siamo quasi accorti di chi c’è subito dietro, in seconda posizione. Esatto, proprio lui, Carofiglio. Il fatto che sia in seconda posizione, e non in centesima, rende, secondo me, il panorama della letteratura italiana un po’ meno triste.
L’Enrico de Il borgo vertiginoso ha qualcosa in comune con Giorgio de Il passato è una terra straniera, e se vogliamo anche con il primo Guerrieri. Insomma, la trama di questo Carofiglio è un po’ meno “nuova” ed è, come per tutti i romanzi in cui non è protagonista Guerrieri, abbastanza esile. C’è lui, che non è né carne né pesce, e poi c’è quello che lo tira dalla sua parte, mentre lui nemmeno capisce bene cosa ci sia, da quella parte. Anzi, quando comincia a capirlo non gli piace, ma sta lì. E si ribella solo quando viene toccato nel suo intimo, altrimenti, probabilmente, andrebbe avanti così. Una storia di media vigliaccheria, o di ordinario egoismo. Di cui tutti, prima o poi, ci siamo macchiati.   Sì, perché Carofiglio è Autore nel senso pieno del termine, cioè “colui che accresce”. E cosa, accresce? Accresce la vita. La nostra, di noi che leggiamo i suoi libri. Perché il suo modo inimitabile di scendere nei particolari, nel descrivere le sensazioni, con quella ironia inconfondibile, sua, ci fa aprire gli occhi su cose che sapevamo, ma non volevamo dirci.
Un suo romanzo lo si riconosce dalle prime righe perché non solo scrive (molto) bene, ma ha stile, una cosa abbastanza rara nel panorama della letteratura italiana contemporanea. Con il suo stile, con le sue parole, Carofiglio ci prende e ci caccia a forza dentro la nostra vita attraverso quella dei suoi personaggi.
E allora si che “dopo l’ultima pagina il romanzo finisce”, e noi auguriamo tutto il meglio a Enrico, a Giorgio, e a Guido. Quello che sogniamo per noi.

(Post pubblicato, in origine, qui)

venerdì 11 ottobre 2013

Marina Bellezza–Silvia Avallone

TRAMA (da qlibri ): Marina ha vent’anni e una bellezza assoluta. È cresciuta inseguendo l’affetto di suo padre, perduto sulla strada dei casinò e delle belle donne, e di una madre troppo fragile. Per questo dalla vita pretende un risarcimento, che significa lasciare la Valle Cervo, andare in città e prendersi la fama, il denaro, avere il mondo ai suoi piedi. Un sogno da raggiungere subito e con ostinazione. La stessa di Andrea, che lavora part time in una biblioteca e vive all’ombra del fratello emigrato in America, ma ha un progetto folle e coraggioso in cui nessuno vuole credere, neppure suo padre, il granitico ex sindaco di Biella. Per lui la sfida è tornare dove ha cominciato il nonno tanti anni prima, risalire la montagna, ripartire dalle origini. Marina e Andrea si attraggono e respingono come magneti, bruciano di un amore che vuole essere per sempre. Marina ha la voce di una dea, canta e balla nei centri commerciali trasformandoli in discoteche, si muove davanti alle telecamere con destrezza animale. Andrea sceglie invece di lavorare con le mani, di vivere secondo i ritmi antichi delle stagioni. Loro due, insieme, sono la scintilla.
Meno duro e straniante di Acciaio, che mi aveva lasciato una dose eccessiva di amaro in bocca, Marina Bellezza è più vero, più vivo. Lì era Piombino, qui sono le montagne del Biellese. Due luoghi circoscritti, descritti nel dettaglio, e allo stesso tempo sfuggenti. Due luoghi “dimenticati”, lontani, due microcosmi.
Un cervo morto all’inizio, e un cervo vivo, che corre nel bosco, alla fine. Potrebbe essere, anzi è, questa la metafora su cui si regge Marina Bellezza. Tanti personaggi, e al centro loro due, Marina e Andrea. Le loro scelte di vita, inconciliabili tra loro, e così “diverse”, “strane”, all’interno di una società. Marina che sogna di andare a Sanremo, di essere famosa, cercando di cavalcare gli anni Duemila e il successo muovendosi all’interno di uno scenario di provincia che non potrebbe essere più “anni Novanta”. E Andrea, che sogna di vivere come suo nonno, e di avere una moglie che lo prega di “metterla di nuovo incinta”?. Due personaggi del passato, e in mezzo un grande amore.
Da adulti impariamo che, il novanta per cento delle volte, l’amore vero non è quello sbattere di porte, quell’urlarsi contro per poi strapparsi i vestiti a vicenda all’aperto, quel piangere disperati in cambio di mezz’ora di felicità, ma viceversa è una cosa che si nutre di tranquillità, di serenità, di un giorno dopo l’altro. Eppure, nei sogni, noi facciamo ancora il tifo per gli amori disperati. E allora siamo lì, pagina dopo pagina, a pensare, a temere che Andrea e Marina non ce la faranno, che finiranno per distruggersi a vicenda. Eppure allo stesso tempo siamo lì, a fare irrazionalmente il tifo per loro, sperando che possano diventare adulti, nell’ultima pagina.

(Post pubblicato, in origine, qui)

venerdì 30 agosto 2013

Recensione – “La verità sul caso Harry Quebert”

TRAMA (da qlibri): Estate 1975. Nola Kellergan, una ragazzina di 15 anni, scompare misteriosamente nella tranquilla cittadina di Aurora, New Hampshire. Le ricerche della polizia non danno alcun esito. Primavera 2008, New York. Marcus Goldman, giovane scrittore di successo, sta vivendo uno dei rischi del suo mestiere: è bloccato, non riesce a scrivere una sola riga del romanzo che da lì a poco dovrebbe consegnare al suo editore. Ma qualcosa di imprevisto accade nella sua vita: il suo amico e professore universitario Harry Quebert, uno degli scrittori più stimati d'America, viene accusato di avere ucciso la giovane Nola Kellergan. Il cadavere della ragazza viene infatti ritrovato nel giardino della villa dello scrittore, a Goose Cove, poco fuori Aurora, sulle rive dell'oceano. Convinto dell'innocenza di Harry Quebert, Marcus Goldman abbandona tutto e va nel New Hampshire per condurre la sua personale inchiesta. Marcus, dopo oltre trent’anni deve dare risposta a una domanda: chi ha ucciso Nola Kellergan? E, naturalmente, deve scrivere un romanzo di grande successo.
Ovviamente, non potevo esimermi dallo scrivere qualche riga sul libro dell’estate, La verità sul caso Harry Quebert. L’ho divorato in pochi giorni, procurandomi tanta confusione e un po’ di mal di testa. Eh sì, questa non sarà una recensione positiva.
All’inizio, la storia comincia bene. Scorre fluida, in alcuni tratti fa sorridere, in altri proprio ridere. Ma dalla metà in avanti (o forse addirittura prima), si ha un crollo totale. Inizia un’affannosa ricerca di un modo per sciogliere il mistero, passando da un colpevole all’altro, arrivando a una conclusione a parer mio non solo deludente, ma anche non particolarmente convincente.
Inoltre, non credo si possa definire il romanzo particolarmente originale. La ragazzina pazza ricorda un po’, senza poterla assolutamente eguagliare, la Carrie di Stephen King, e il giovane deforme e problematico ricorda un po’ Julian Carax dell’Ombra del Vento.

(Post pubblicato, in origine, qui)

domenica 16 giugno 2013

La cugina americana–F. Segal

Trama (da qlibri): Hampstead Garden, nordovest di Londra, è il quartiere della buona borghesia ebraica, ricca, istruita, liberal, solidale: tutti conoscono tutti, tutti frequentano tutti, tutti sono pronti a soccorrere chiunque si trovi in difficoltà. Adam e Rachel si conoscono da sempre, si amano dall'adolescenza, e stanno per fidanzarsi. La comunità segue l'evolversi della relazione da quando è nata, tutti aspettano il matrimonio, i figli. Tutto va come dovrebbe andare fino a quando, da New York, città di liberi costumi e strane usanze, arriva Ellie, la cugina di Rachel: bellissima, fragile, dolce, infelice, anticonformista. Ellie è una sopravvissuta, come tanti dei membri anziani della comunità: non ai campi di concentramento, ma alla morte della madre in un attentato terroristico in Israele, e alla conseguente decisione del padre di vagare per il mondo portando la piccola con sé. Tra Adam ed Ellie è amore al primo sguardo. Entrambi resistono, si evitano, si cercano, irresistibilmente attratti e irrimediabilmente divisi. Fino a quando Adam, avvocato nello studio del padre di Rachel, viene incaricato di risolvere la situazione incresciosa, pericolosa, che Ellie si è lasciata alle spalle a New York. I due sono costretti a incontrarsi, per lavoro, fino a quando una malattia di Ziva, la nonna di Ellie e Rachel, fornisce ai due innamorati impossibili l'occasione di infrangere le regole.
Sono certa che non mi piacciano i sequel, ma dopo La cugina americana di Francesca Segal mi tocca invece riconsiderare i remake, che mai avevo preso in considerazione. La cugina americana si rifà infatti, completamente e con grande precisione, a L’età dell’innocenza di Edith Wharton. La vicenda è trasportata dagli Stati Uniti a Londra, con una grande novità: i protagonisti appartengono tutti alla comunità ebraica. Scelta che all’inizio mi ha lasciato un po’ perplessa, ma piano piano mi ha convinta: la particolarità della comunità ebraica diventa un perfetto parallelo con la specificità di quella americana dei primi del Novecento. E a questo punto, la “cugina” non può che diventare, da europea d’adozione che era nel romanzo della Wharton, americana.
Ho letto svariate recensioni del romanzo, e quasi tutte negative. La cosa, devo ammetterlo, mi ha un po’ stupito. La trama non mi è parsa noiosa, anche se mi sembra sia assolutamente necessario leggere prima il romanzo della Wharton.  Certo, alcuni passaggi e alcuni dialoghi possono sembrare “ottocenteschi”, ma non dobbiamo dimenticare che la Segal fa riferimento a una comunità ben specifica, al cui interno vigono regole ben precise. E mi sembra che il romanzo arrivi, alla fine, a dimostrare che i sentimenti umani, così come le debolezze, sono eterni. Eterno il desiderio di trasgressione, eterno il bisogno, soprattutto maschile, di “sistemarsi”, eterno il coraggio delle donne.
In conclusione: è un romanzo che si lascia leggere, malgrado la lentezza della trama, ma non credo si possa pensare di coglierne tutti i significati senza aver letto (e amato) L’età dell’innocenza.

(Post pubblicato, in origine, qui)

martedì 14 maggio 2013

Recensione: “Quattro etti d’amore, grazie”– C. Gamberale

Chiara-Gamberale-Quattro-etti-damore-grazieTRAMA ( da qlibri): Quasi ogni giorno Erica e Tea s'incrociano tra gli scaffali di un supermercato. Erica ha un posto in banca, un marito devoto, una madre stralunata, un gruppo di ex compagni di classe su Facebook, due figli. Tea è la protagonista della serie tv di culto "Testa o Cuore", ha un passato complesso, un marito fascinoso e manipolatore. Erica fa la spesa di una madre di famiglia, Tea non va oltre gli yogurt light. Erica osserva il carrello di Tea e sogna: sogna la libertà di una donna bambina, senza responsabilità, la leggerezza di un corpo fantastico, la passione di un amore proibito. Certo non immaginerebbe mai di essere un mito per il suo mito, un ideale per il suo ideale. Invece per Tea lo è: di Erica non conosce nemmeno il nome e l'ha ribattezzata "signora Cunningham". Nelle sue abitudini coglie la promessa di una pace che a lei pare negata, è convinta sia un punto di riferimento per se stessa e per gli altri, proprio come la madre impeccabile di "Happy Days". Le due donne, in un continuo gioco di equivoci e di proiezioni, si spiano la spesa, si contemplano a vicenda: ma l'appello all'esistenza dell'altra diventa soprattutto l'occasione per guardare in faccia le proprie scelte e non confonderle con il destino. Che comunque irrompe, strisciante prima, deflagrante poi, nelle case di entrambe.
Scrivere una nevrosi, o scrivere per sfuggire a una nevrosi? è la domanda che mi sono posta leggendo questo romanzo della Gamberale, che ho amato forse di più di Le luci nelle case degli altri, che avevo trovato un po’ troppo lungo. La mia domanda è del tutto priva di malizia, anzi. Nasce dal profondo di una che per anni ha scritto per sfuggire alla solitudine, alle paure, alla soffocante chiusura di un vicolo cieco.
è un libro pieno di nevrosi, questo. Quella di Tea, e quella di Erica. E spesso ti trovi a chiederti quale ti faccia più paura. Un gioco di relazioni, di incroci, di intrecci casuali. Un seguirsi ossessivo, assurdo. Nevrotico. Ti viene spontaneo avvicinarsi a una delle due, viverne da dentro la vita, che la Gamberale - come quando raccontava di Mandorla nelle Luci - ti fa vedere dall’interno, usando espressioni particolari, poco letterarie ma efficaci, precise. Anch’io, come Erica, mi sono sentita per tanto tempo sottovuoto.
Un mix di assurdità e quotidianità, amore e dipendenza. Consigliato, tantissimo.

(Post pubblicato, in origine, qui)