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E’ avvincente come un romanzo perché – come si evince dalla trama – ci tiene ancorati alla storia di una famiglia precisa, e soprattutto alle vite di due donne ben delineate: la coraggiosissima Rosa, bisnonna della Gruber, e la di lei figlia minore, Helena detta Hella.
Insegna, e molto, perché parla di qualcosa a cui nessun docente di storia ha mai fatto più di un rapido cenno, né a scuola, né all’università; qualcosa che i libri di storia non raccontano come dovrebbero: la questione del Sudtirolo, la sua annessione all’Italia dopo la Grande Guerra, l’italianizzazione forzata avvenuta sotto il fascismo, la conseguente proibizione di parlare il tedesco. La speranza, di molti, che l’avvento di Hitler fornisse una via di fuga al fascismo, un’occasione per riappropriarsi della propria cultura, della propria lingua, della propria libertà. La terribile questione dell'opzione: i cittadini del Sudtirolo dovettero scegliere, entro il 31 dicembre del 1939, se abbandonare le loro terre per trasferirsi nel Reich e tornare a essere “tedeschi” o rimanere sul loro suolo natio e rinunciare per sempre alla loro cultura. In 70.000 lasciarono le loro case.
Lilli Gruber ci racconta tutto questo e molto di più. Ci racconta la storia di Hella, il suo arresto, la tragica esperienza del confino, la sua liberazione avvenuta grazie alla sorella Berta, che riuscì ad avvicinare Ciano a Vienna. Osserva perplessa la sua adesione all’ideologia hitleriana, senza cercare di giustificarla: era chiaro a molti che Hitler non era davvero interessato al Sudtirolo, ma tanti si illusero. Ci fa guardare la Storia del Sudtirolo da un altro punto di vista, portandoci a porci delle domande sulla retorica questione dell’irredentismo. Ci racconta la Storia attraverso la storia della sua famiglia, dal 1902 al 1940, affrontando anche la questione dell’antisemitismo con uno stile asciutto, lontano tanto dalla freddezza quanto dal patetismo. Ci rende partecipi della tragedia di quei cittadini sudtirolesi privati dall’oggi al domani della loro lingua, e obbligati a parlare in italiano. Ci racconta il dolore di tanti giovani nel dover prestare servizio militare sotto la bandiera italiana, nemica.
Ho un debole per la Gruber da quando, in terza elementare, l’ho interpretata in una recita scolastica, con tanto di parrucca rossa. Leggendo questo libro ho apprezzato particolarmente il suo modo obiettivo e sempre attento, critico, di osservare gli eventi. Di descrivere il Brennero, che con l’abolizione delle frontiere ha perso vitalità; di raccontare di un suo tragico viaggio in treno; di affrontare questioni politiche e sociali che oggi, più che mai, sono importanti. Ho apprezzato il suo coraggio nello scrivere che “il passato resiste, ma la memoria è sempre troppo corta”, nel far notare che dopo l’arresto di Mussolini tutti i suoi sostenitori si dissolsero, facendo apparentemente dell’Italia un paese abitato solo da nemici del regime, e lo stesso fu per l’adesione al nazismo da parte dei sudtirolesi.
Sul Kindle ho evidenziato molto, vi lascio un passaggio solo. Il grassetto è mio.
“Queste vette non hanno più storie da raccontare, né tristi né gioiose, il passo è diventato il simbolo di un continente senza più frontiere, dove certe lezioni sono state apprese. Ma sarà poi così vero? A quasi un secolo dal crollo degli Imperi centrali, una nuova e grave crisi economica, politica e morale minaccia oggi con i suoi sconvolgimenti la costruzione di un’Europa riconciliata”.
(Post pubblicato, in origine, qui)