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venerdì 11 ottobre 2013

Marina Bellezza–Silvia Avallone

TRAMA (da qlibri ): Marina ha vent’anni e una bellezza assoluta. È cresciuta inseguendo l’affetto di suo padre, perduto sulla strada dei casinò e delle belle donne, e di una madre troppo fragile. Per questo dalla vita pretende un risarcimento, che significa lasciare la Valle Cervo, andare in città e prendersi la fama, il denaro, avere il mondo ai suoi piedi. Un sogno da raggiungere subito e con ostinazione. La stessa di Andrea, che lavora part time in una biblioteca e vive all’ombra del fratello emigrato in America, ma ha un progetto folle e coraggioso in cui nessuno vuole credere, neppure suo padre, il granitico ex sindaco di Biella. Per lui la sfida è tornare dove ha cominciato il nonno tanti anni prima, risalire la montagna, ripartire dalle origini. Marina e Andrea si attraggono e respingono come magneti, bruciano di un amore che vuole essere per sempre. Marina ha la voce di una dea, canta e balla nei centri commerciali trasformandoli in discoteche, si muove davanti alle telecamere con destrezza animale. Andrea sceglie invece di lavorare con le mani, di vivere secondo i ritmi antichi delle stagioni. Loro due, insieme, sono la scintilla.
Meno duro e straniante di Acciaio, che mi aveva lasciato una dose eccessiva di amaro in bocca, Marina Bellezza è più vero, più vivo. Lì era Piombino, qui sono le montagne del Biellese. Due luoghi circoscritti, descritti nel dettaglio, e allo stesso tempo sfuggenti. Due luoghi “dimenticati”, lontani, due microcosmi.
Un cervo morto all’inizio, e un cervo vivo, che corre nel bosco, alla fine. Potrebbe essere, anzi è, questa la metafora su cui si regge Marina Bellezza. Tanti personaggi, e al centro loro due, Marina e Andrea. Le loro scelte di vita, inconciliabili tra loro, e così “diverse”, “strane”, all’interno di una società. Marina che sogna di andare a Sanremo, di essere famosa, cercando di cavalcare gli anni Duemila e il successo muovendosi all’interno di uno scenario di provincia che non potrebbe essere più “anni Novanta”. E Andrea, che sogna di vivere come suo nonno, e di avere una moglie che lo prega di “metterla di nuovo incinta”?. Due personaggi del passato, e in mezzo un grande amore.
Da adulti impariamo che, il novanta per cento delle volte, l’amore vero non è quello sbattere di porte, quell’urlarsi contro per poi strapparsi i vestiti a vicenda all’aperto, quel piangere disperati in cambio di mezz’ora di felicità, ma viceversa è una cosa che si nutre di tranquillità, di serenità, di un giorno dopo l’altro. Eppure, nei sogni, noi facciamo ancora il tifo per gli amori disperati. E allora siamo lì, pagina dopo pagina, a pensare, a temere che Andrea e Marina non ce la faranno, che finiranno per distruggersi a vicenda. Eppure allo stesso tempo siamo lì, a fare irrazionalmente il tifo per loro, sperando che possano diventare adulti, nell’ultima pagina.

(Post pubblicato, in origine, qui)

venerdì 30 agosto 2013

Recensione – “La verità sul caso Harry Quebert”

TRAMA (da qlibri): Estate 1975. Nola Kellergan, una ragazzina di 15 anni, scompare misteriosamente nella tranquilla cittadina di Aurora, New Hampshire. Le ricerche della polizia non danno alcun esito. Primavera 2008, New York. Marcus Goldman, giovane scrittore di successo, sta vivendo uno dei rischi del suo mestiere: è bloccato, non riesce a scrivere una sola riga del romanzo che da lì a poco dovrebbe consegnare al suo editore. Ma qualcosa di imprevisto accade nella sua vita: il suo amico e professore universitario Harry Quebert, uno degli scrittori più stimati d'America, viene accusato di avere ucciso la giovane Nola Kellergan. Il cadavere della ragazza viene infatti ritrovato nel giardino della villa dello scrittore, a Goose Cove, poco fuori Aurora, sulle rive dell'oceano. Convinto dell'innocenza di Harry Quebert, Marcus Goldman abbandona tutto e va nel New Hampshire per condurre la sua personale inchiesta. Marcus, dopo oltre trent’anni deve dare risposta a una domanda: chi ha ucciso Nola Kellergan? E, naturalmente, deve scrivere un romanzo di grande successo.
Ovviamente, non potevo esimermi dallo scrivere qualche riga sul libro dell’estate, La verità sul caso Harry Quebert. L’ho divorato in pochi giorni, procurandomi tanta confusione e un po’ di mal di testa. Eh sì, questa non sarà una recensione positiva.
All’inizio, la storia comincia bene. Scorre fluida, in alcuni tratti fa sorridere, in altri proprio ridere. Ma dalla metà in avanti (o forse addirittura prima), si ha un crollo totale. Inizia un’affannosa ricerca di un modo per sciogliere il mistero, passando da un colpevole all’altro, arrivando a una conclusione a parer mio non solo deludente, ma anche non particolarmente convincente.
Inoltre, non credo si possa definire il romanzo particolarmente originale. La ragazzina pazza ricorda un po’, senza poterla assolutamente eguagliare, la Carrie di Stephen King, e il giovane deforme e problematico ricorda un po’ Julian Carax dell’Ombra del Vento.

(Post pubblicato, in origine, qui)

domenica 16 giugno 2013

La cugina americana–F. Segal

Trama (da qlibri): Hampstead Garden, nordovest di Londra, è il quartiere della buona borghesia ebraica, ricca, istruita, liberal, solidale: tutti conoscono tutti, tutti frequentano tutti, tutti sono pronti a soccorrere chiunque si trovi in difficoltà. Adam e Rachel si conoscono da sempre, si amano dall'adolescenza, e stanno per fidanzarsi. La comunità segue l'evolversi della relazione da quando è nata, tutti aspettano il matrimonio, i figli. Tutto va come dovrebbe andare fino a quando, da New York, città di liberi costumi e strane usanze, arriva Ellie, la cugina di Rachel: bellissima, fragile, dolce, infelice, anticonformista. Ellie è una sopravvissuta, come tanti dei membri anziani della comunità: non ai campi di concentramento, ma alla morte della madre in un attentato terroristico in Israele, e alla conseguente decisione del padre di vagare per il mondo portando la piccola con sé. Tra Adam ed Ellie è amore al primo sguardo. Entrambi resistono, si evitano, si cercano, irresistibilmente attratti e irrimediabilmente divisi. Fino a quando Adam, avvocato nello studio del padre di Rachel, viene incaricato di risolvere la situazione incresciosa, pericolosa, che Ellie si è lasciata alle spalle a New York. I due sono costretti a incontrarsi, per lavoro, fino a quando una malattia di Ziva, la nonna di Ellie e Rachel, fornisce ai due innamorati impossibili l'occasione di infrangere le regole.
Sono certa che non mi piacciano i sequel, ma dopo La cugina americana di Francesca Segal mi tocca invece riconsiderare i remake, che mai avevo preso in considerazione. La cugina americana si rifà infatti, completamente e con grande precisione, a L’età dell’innocenza di Edith Wharton. La vicenda è trasportata dagli Stati Uniti a Londra, con una grande novità: i protagonisti appartengono tutti alla comunità ebraica. Scelta che all’inizio mi ha lasciato un po’ perplessa, ma piano piano mi ha convinta: la particolarità della comunità ebraica diventa un perfetto parallelo con la specificità di quella americana dei primi del Novecento. E a questo punto, la “cugina” non può che diventare, da europea d’adozione che era nel romanzo della Wharton, americana.
Ho letto svariate recensioni del romanzo, e quasi tutte negative. La cosa, devo ammetterlo, mi ha un po’ stupito. La trama non mi è parsa noiosa, anche se mi sembra sia assolutamente necessario leggere prima il romanzo della Wharton.  Certo, alcuni passaggi e alcuni dialoghi possono sembrare “ottocenteschi”, ma non dobbiamo dimenticare che la Segal fa riferimento a una comunità ben specifica, al cui interno vigono regole ben precise. E mi sembra che il romanzo arrivi, alla fine, a dimostrare che i sentimenti umani, così come le debolezze, sono eterni. Eterno il desiderio di trasgressione, eterno il bisogno, soprattutto maschile, di “sistemarsi”, eterno il coraggio delle donne.
In conclusione: è un romanzo che si lascia leggere, malgrado la lentezza della trama, ma non credo si possa pensare di coglierne tutti i significati senza aver letto (e amato) L’età dell’innocenza.

(Post pubblicato, in origine, qui)

martedì 14 maggio 2013

Recensione: “Quattro etti d’amore, grazie”– C. Gamberale

Chiara-Gamberale-Quattro-etti-damore-grazieTRAMA ( da qlibri): Quasi ogni giorno Erica e Tea s'incrociano tra gli scaffali di un supermercato. Erica ha un posto in banca, un marito devoto, una madre stralunata, un gruppo di ex compagni di classe su Facebook, due figli. Tea è la protagonista della serie tv di culto "Testa o Cuore", ha un passato complesso, un marito fascinoso e manipolatore. Erica fa la spesa di una madre di famiglia, Tea non va oltre gli yogurt light. Erica osserva il carrello di Tea e sogna: sogna la libertà di una donna bambina, senza responsabilità, la leggerezza di un corpo fantastico, la passione di un amore proibito. Certo non immaginerebbe mai di essere un mito per il suo mito, un ideale per il suo ideale. Invece per Tea lo è: di Erica non conosce nemmeno il nome e l'ha ribattezzata "signora Cunningham". Nelle sue abitudini coglie la promessa di una pace che a lei pare negata, è convinta sia un punto di riferimento per se stessa e per gli altri, proprio come la madre impeccabile di "Happy Days". Le due donne, in un continuo gioco di equivoci e di proiezioni, si spiano la spesa, si contemplano a vicenda: ma l'appello all'esistenza dell'altra diventa soprattutto l'occasione per guardare in faccia le proprie scelte e non confonderle con il destino. Che comunque irrompe, strisciante prima, deflagrante poi, nelle case di entrambe.
Scrivere una nevrosi, o scrivere per sfuggire a una nevrosi? è la domanda che mi sono posta leggendo questo romanzo della Gamberale, che ho amato forse di più di Le luci nelle case degli altri, che avevo trovato un po’ troppo lungo. La mia domanda è del tutto priva di malizia, anzi. Nasce dal profondo di una che per anni ha scritto per sfuggire alla solitudine, alle paure, alla soffocante chiusura di un vicolo cieco.
è un libro pieno di nevrosi, questo. Quella di Tea, e quella di Erica. E spesso ti trovi a chiederti quale ti faccia più paura. Un gioco di relazioni, di incroci, di intrecci casuali. Un seguirsi ossessivo, assurdo. Nevrotico. Ti viene spontaneo avvicinarsi a una delle due, viverne da dentro la vita, che la Gamberale - come quando raccontava di Mandorla nelle Luci - ti fa vedere dall’interno, usando espressioni particolari, poco letterarie ma efficaci, precise. Anch’io, come Erica, mi sono sentita per tanto tempo sottovuoto.
Un mix di assurdità e quotidianità, amore e dipendenza. Consigliato, tantissimo.

(Post pubblicato, in origine, qui)

lunedì 29 aprile 2013

Recensione: “Io prima di te”– J. Moyes

TRAMA (da ibs.it): A ventisei anni, Louisa Clark sa tante cose. Sa esattamente quanti passi ci sono tra la fermata dell'autobus e casa sua. Sa che le piace fare la cameriera in un locale senza troppe pretese nella piccola località turistica dove è nata e da cui non si è mai mossa, e probabilmente, nel profondo del suo cuore, sa anche di non essere davvero innamorata di Patrick, il ragazzo con cui è fidanzata da quasi sette anni. Quello che invece ignora è che sta per perdere il lavoro e che, per la prima volta, tutte le sue certezze saranno messe in discussione. A trentacinque anni, Will Traynor sa che il terribile incidente di cui è rimasto vittima gli ha tolto la voglia di vivere. Sa che niente può più essere come prima, e sa esattamente come porre fine a questa sofferenza. Quello che invece ignora è che Lou sta per irrompere prepotentemente nella sua vita portando con sé un'esplosione di giovinezza, stravaganza e abiti variopinti. E nessuno dei due sa che sta per cambiare l'altro per sempre. "Io prima di te" è la storia di un incontro. L'incontro fra una ragazza che ha scelto di vivere in un mondo piccolo, sicuro, senza sorprese e senza rischi, e un uomo che ha conosciuto successo, la ricchezza e la felicità, e all'improvviso li ha visti dissolversi, ritrovandosi inchiodato su una sedia a rotelle. Due persone profondamente diverse, che imparano a conoscersi senza però rinunciare a se stesse, insegnando l'una all'altra a mettersi in gioco.
Divorato in un pomeriggio, tre ore, in un crescendo di ansia, commozione, curiosità. Uno dei più belli letti nel 2013, anche se all’inizio la storia mi pareva troppo vicina a Quasi amici.
Romantico, dolce, delicato. Ben scritto, scorrevole. Mai scontato. Commovente ma non patetico: non ho mai pianto, anche se l’angoscia e la malinconia mi serravano la gola. Perché i toni sono sempre sommessi, dolci, pacati, mai esagerati, mai carichi.
I personaggi sono tutti ben tratteggiati, quelli simpatici come quelli odiosi. Figure complete, da apprezzare o disprezzare.
Il tema trattato… beh, è impegnativo, molto. L’autrice non ci offre una chiave di lettura univoca, non traspare il suo parere. Dobbiamo decidere noi da che parte stare, cosa pensare, di fronte a quello che può diventare il dilemma della vita.
E il libro si chiude con una straordinaria immagine di pace, di quelle che solo l’amore sa dare.

(Post pubblicato, in origine, qui)

domenica 28 aprile 2013

Recensione: “Gli ingredienti segreti dell’amore” N. Barreau

TRAMA (da ibs.it):  Le coincidenze non esistono. Aurélie Bredin ne è sicura. Giovane e attraente chef, gestisce il ristorante di famiglia, Le Temps des Cerises. È in quel piccolo locale con le tovaglie a quadri bianchi e rossi in rue Princesse, a due passi da boulevard Saint-Germain, che il padre della ragazza ha conquistato il cuore della futura moglie grazie al suo famoso Menu d'amour. Ed è sempre lì, circondata dal profumo di cioccolato e cannella, che Aurélie è cresciuta e ha trovato conforto nei momenti difficili. Ora però, dopo una brutta scottatura d'amore, neanche il suo inguaribile ottimismo e l'accogliente tepore della cucina dell'infanzia riescono più a consolarla. Un pomeriggio, più triste che mai, Aurélie si rifugia in una libreria, dove si imbatte in un romanzo intitolato "Il sorriso delle donne". Incuriosita, inizia a leggerlo e scopre un passaggio del libro in cui viene citato proprio il suo ristorante. Grata di quel regalo inatteso, decide di contattare l'autore per ringraziarlo. Ma l'impresa è tutt'altro che facile. Ogni tentativo di conoscere lo scrittore - un misterioso ed elusivo inglese - viene bloccato da André, l'editor della casa editrice francese che ha pubblicato il romanzo. Aurélie non si lascia scoraggiare e, quando finalmente riuscirà nel suo intento, l'incontro sarà molto diverso da ciò che si era aspettata. Più romantico, e nient'affatto casuale.
Ecco una nuova recensione, dopo tanto tempo. Lo studio e la stanchezza ti portano via il tempo per leggere, purtroppo. Ma questo romanzo si è inserito tranquillamente in un viaggio in treno, e nella sera prima di un esame.
La cosa più bella in assoluto di questo libro è la copertina, la peggiore è la protagonista. Aurélie non ha mai letto un libro in vita sua, e come se non bastasse agisce, pensa e parla come se avesse 15 anni. Ma d’altronde, cosa aspettarsi da una che, ribadiamolo, non ha mai letto un libro in vita sua?
La storia però è apprezzabile, si legge rapidamente e senza intoppi. Il protagonista maschile, André, è affascinante e acuto al punto giusto.
Nelle prime pagine del libro, avevo avvertito degli echi da L’opera di Zola, oltre che ravvisato nel personaggio di Claude, ex – fidanzato di Aurélie, dei comportamenti che erano tipici del grande Degas, oltre che Dickens. Peccato che questa linea si perda col passare delle pagine.

(Post pubblicato, in origine, qui)

domenica 17 febbraio 2013

Recensione: “Le affinità alchemiche”– Gaia Coltorti

TRAMA (da amazon.it):Giovanni ha diciotto anni, trascorsi quasi tutti a Verona, dove è nato. Una vita tranquilla, qualche amico e, ogni giorno, i lunghi allenamenti in piscina per prepararsi alle gare. Anche a casa regna la quiete: Giovanni vive solo con suo padre, notaio, in quel genere di grande appartamento abitato da due uomini che ogni donna può immaginarsi. Selvaggia ha diciotto anni, molte amiche e diversi spasimanti, vive sul mare e assapora l'estate appena iniziata quando sua madre le sconvolge la vita: si trasferiranno per ragioni di lavoro. Selvaggia cambierà scuola, dovrà ricominciare tutto da capo e lo dovrà fare a Verona, la città dove è nata e da cui proprio la mamma, tanti anni prima, l'aveva portata via, separandola dal padre e dal fratello gemello. Quando Selvaggia varca per la prima volta la soglia della nuova casa, Giovanni è rintanato in camera sua. Gli basta la voce di lei per capire che nulla sarà più come prima. Giovanni scopre quella voce come un regalo, ma al tempo stesso la riconosce, è un suono che vive da sempre dentro di lui: Selvaggia, la sorella perduta, è tornata nella sua vita, per sempre. Lei a Verona non conosce nessuno: solo Johnny - come lo ha subito ribattezzato - può farle da guida e tenerle compagnia nei tre lunghi mesi che devono trascorrere prima della ripresa scolastica. Selvaggia è bellissima, piena di fascino ma anche capricciosa fino allo sfinimento, croce e delizia per il fratello ritrovato. Presto tra i due si sprigiona un'elettricità, un magnetismo, un'affinità...
I motivi per cui ho letto questo libro non sono esattamente nobili. Ho letto l’intervista alla sua autrice su Vanity Fair e l’ho trovata antipatica e un po’ presuntuosa, di quella presunzione coperta di falsa modestia (spero mi perdoni, se mai dovesse passare di qua). Insomma, ho scaricato il libro per vedere quanto faceva schifo. Beh, non fa schifo.
L’autrice ha vent’anni, e l’ha scritto a diciassette. Tanto di cappello, assolutamente. Una storia controversa, provocante, destinata a far discutere. La storia di un incesto, raccontato senza volgarità, senza grottesco compiacimento.
I due personaggi principali, Selvaggia e Johnny, ci sono, eccome. Sono profondi, completi, ben descritti e soprattutto ben scritti. Quello che manca è lo sfondo. Mancano le città, Verona, Genova e Roma. Mancano soprattutto i loro genitori, che sono due figure di carta appena ritagliate, e assolutamente inverosimili. Peccato, davvero. L’autrice avrebbe potuto far di più, perché è in grado.
E’ un libro scritto bene, con uno stile molto personale, anche se a tratti un po’ ingenuo. La voce narrante è esterna, un narratore onnisciente senza volto che si rivolge a Johnny con il tuo e lo accompagna in questa storia di amore, dolore e perdizione. Una lingua che mescola stilemi alti, suoni arcaici a voci da fumetto, e a slang giovanili. Un mix che ho apprezzato, che non ho trovato né presuntuoso né lezioso, come invece ho letto altrove. Qua e là c’è qualche ingenuità, che credo nel prossimo romanzo della Coltorti non ci sarà più.
Però..c’è un però. Da metà in poi siamo stufi, la storia si trascina, non ci sono nuovi eventi, il supposto colpo di scena finale non è tale. La trama è piatta, incolore. Non si arricchisce, continua sempre uguale precipitando verso un finale scontato, che a quel punto i personaggi si meritano in pieno. Peccato, di nuovo, perché l’autrice ha tutte le carte per far di più, come ho già detto.                        Il vero mistero, a parer mio, è perché abbia scelto di raccontare una storia del genere. Non riesco a leggerci sotto nessun messaggio, niente di niente. Solo una provocazione che.. non provoca nessuna reazione. Nemmeno un sano disgusto.
Ok, questa recensione è negativa. Ma Le affinità alchemiche non è un brutto libro, e il linguaggio dell’autrice fa concorrenza a quello di scrittori più adulti e più affermati di lei.

(Post pubblicato, in origine, qui)